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Manconi a Fanpage.it: “Suicidi 16 volte più frequenti, la soluzione è abolire il carcere”

Il giornalista e sociologo Luigi Manconi, in un’intervista a Fanpage.it, parla dell’altissimo numeri di suicidi in carcere (77) che si è registrato quest’anno. Il primo problema è “l’impatto” dei detenuti con il carcere, una vera e propria “società straniera”, e “l’unica prospettiva seria” sarebbe di abolirlo.
A cura di Luca Pons
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"Entrare in carcere non è come arrivare in un hotel, magari in pessime condizioni. È l'accesso a un universo totalmente estraneo, una società straniera, dove tutto è sconosciuto: la lingua che si parla e la gerarchia interna, i costumi e le regole". Luigi Manconi, docente di Sociologia dei fenomeni politici e presidente della onlus A buon diritto, commenta in un'intervista a Fanpage.it il dato sui suicidi in carcere: nel 2022 sono già 77, il numero più alto in Italia da almeno 40 anni.

Nelle carceri italiane, la capienza massima sarebbe di circa 50mila persone, ma oggi ce ne sono più di 56mila. Il sovraffollamento può aiutare a spiegare l'alto numero di suicidi?

Il sovraffollamento è una delle cause, non penso che sia la principale. Dalle ricerche che ho fatto qualche anno fa – e che non mi risulta siano state smentite – la frequenza dei suicidi risultava maggiore nelle carceri più affollate. Ma direi che la causa principale è quello che chiamerei "l'impatto" tra il detenuto e il sistema penitenziario.

In che senso?

Molti di coloro che si sono suicidati erano entrati in carcere per la prima volta. L'ingresso in carcere è come l'accesso a una società straniera, dove tutto è sconosciuto. L'impatto con questa società straniera determina quella crisi che può portare all'autolesionismo e al suicidio. Poi ci sono tutte le altre ragioni: il sovraffollamento gioca un ruolo importante, perché chi entra in carcere è costretto immediatamente a dividere con gli altri, e spesso a contendere agli altri, le risorse elementari. Lo spazio, ma anche i servizi, la doccia… A conferma di questo, sempre facendo riferimento alle mie ricerche, avevo rilevato che un elevato numero di suicidi avveniva nel primissimo tempo: per questo parlo di "impatto", molti suicidi hanno luogo addirittura nei primi tre giorni di detenzione.

Ci sono dei dati particolarmente importanti per raccontare la situazione di oggi?

Sì, due sono impressionanti. Il primo: un numero così elevato di suicidi c'è stato solo quando il numero di detenuti superiori era superiore di quasi 10mila unità rispetto a oggi. Nel 2009, ci furono 72 suicidi. Ma i detenuti erano quasi 65mila. Il secondo dato è che la frequenza di suicidi tra le persone detenute è circa 16 volte maggiore dei suicidi tra le persone in libertà. Sono numeri che fanno impressione. (Secondo i dati dell'Oms e dell'amministrazione penitenziaria italiana, nel 2019 il tasso di suicidi in Italia è stato di 0,67 ogni 10mila persone, in carcere sono stati 8,7 suicidi ogni 10mila, oltre 13 volte di più, ndr)

Ci sono stati tentativi dello Stato di intervenire sul ‘primo impatto' con il carcere?

Quando mi trovai a fare il sottosegretario alla Giustizia con delega al carcere, tra il 2006 e il 2008 (nel governo Prodi, ndr), promossi insieme all'amministrazione penitenziaria la creazione di quelli che vengono chiamati "reparti nuovi giunti". Purtroppo, la loro diffusione è limitata, in moltissimi carceri queste sezioni dedicate alle persone appena entrate non ci sono o non garantiscono l'attenzione e i servizi necessari.

Secondo lei quale sarebbe la soluzione migliore?

Come dico da anni, io penso che l'unica prospettiva seria, razionale e utile sia l'abolizione del carcere, ovvero la riduzione del carcere a extrema ratio. Secondo l'amministrazione penitenziaria, appena il 10% dei reclusi è socialmente pericoloso. Noi dobbiamo pensare a un carcere che metta nelle condizioni di non nuocere quel 10%. Ma questo significherebbe detenere, oggi, 5.500 persone invece di 55mila. Il carcere può essere definito con tre aggettivi: è patogeno, perché produce malattia, depressione e morte; è criminogeno, perché riproduce all'infinito crimini e criminali; e in ultimo è insensato, nel senso letterale del termine, è privo di un suo senso e una sua utilità, per l'individuo e per la società.

L'abolizione del carcere non è un'utopia?

No, anzi. Non c'è nulla di utopistico in questo, è l'unica prospettiva intelligente. Per esempio, ci sono quasi 5mila persone che oggi sono in carcere perché condannate a una pena detentiva inferiore ai 2 anni. Questo dimostra il carattere insensato del carcere. Per loro, la detenzione è priva di qualunque efficacia o utilità. È pura afflizione, mero accanimento. Dunque perché infliggerlo? Che utilità sociale ha? Quale contributo porta la loro detenzione alla sicurezza collettiva? Nessuno.

In quest'ottica, il carcere perde di senso anche per le categorie di popolazione più ‘fragili'.

Esatto. Circa un terzo dei detenuti è in carcere per violazione del testo unico sulle sostanze stupefacenti. Un numero elevato di loro è tossicodipendente. Dove dovrebbero stare le persone tossicodipendenti? Ovunque tranne che in carcere. Dove dovrebbero stare quei migranti che sono finiti in carcere per un illecito amministrativo, cioè il mancato possesso del permesso di ingresso e soggiorno? Partendo da un illecito amministrativo, si avvia in carcere quella spirale che porta a commettere reati maggiori. Quindi, la sola cosa davvero utile per la sicurezza di tutti, incluse le persone libere, è ridurre al minimo il ricorso al carcere.

Su questo come le sembra si ponga il governo Meloni?

La tendenza è quella esattamente opposta: espandere al massimo il ricorso alla carcerazione. Quando la prima iniziativa dell'attuale governo è inventare un nuovo reato, si fa esattamente questo. In termine giuridici si parla di pan-penalismo: si estende la sanzione penale a una serie sempre più ampia di comportamenti.

Lei è presidente di A buon diritto, una onlus che si occupa si occupa di privazione della libertà e immigrazione, tra le altre cose. Cosa può fare chi si interessa al mondo del carcere?

In questo momento non abbiamo iniziative specifiche, ma c'è una cosa che deve fare chi si interessa: cercare di entrare in carcere, di conoscerlo. Il carcere rappresenta, nell'inconscio, il luogo dove è recluso il male. Dunque, siccome inconsciamente avvertiamo che lì sono reclusi coloro che hanno ceduto alla tentazione del male, e siccome la tentazione del male è conosciuta anche da coloro che al male resistono, il carcere è un fattore di inquietudine e preferiamo ignorarlo. La politica opera in questa direzione, affinché lo sguardo della collettività non incontri il carcere: basta pensare che tutte le nuove carceri sono state costruite fuori dalla cinta cittadina.

Di recente ha parlato di Alfredo Cospito e ha sottolineato che sta scontando un ergastolo con il regime di 41-bis nonostante i suoi reati non abbiano avuto vittime. Cospito è in sciopero della fame dal 20 ottobre per protestare le condizioni in cui è detenuto. La sua vicenda si collega al tema dei suicidi in carcere?

La protesta di Cospito ci racconta molto di tutto questo. Il regime di 41-bis, il regime di alta sicurezza e il carcere in sé privano della capacità di sentire e vedere, nel senso fisico e letterale: si chiama deprivazione sensoriale, a lungo andare i sensi vengono indeboliti. E, soprattutto, tolgono la capacità di entrare in relazione con l'esterno, con gli altri. Tutto ciò determina la condizione di privazione, di depressione, che in determinate circostanze può portare a fenomeni di autolesionismo, che sono molto diffusi, e in un numero crescente di casi al suicidio.

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