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Opinioni

Iniqua, semplicistica, a rischio truffa: ecco la flat tax incrementale del governo Meloni

La proposta fiscale di Fratelli d’Italia, condivisa con la coalizione di destra, prevede la stessa aliquota per la crescita del reddito: una misura che, con l’innalzamento del tetto del contante a 10mila euro, aiuterebbe i furbetti (a danno dei poveri).
A cura di Roberta Covelli
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Prima di incassare alla Camera e al Senato la prevedibile fiducia per il suo governo, Giorgia Meloni ha pronunciato a Montecitorio il suo discorso programmatico. Temi e toni non stupiscono, e sono la sintesi di posizioni di destra. Tra queste, non mancano le promesse fiscali: dal berlusconiano "meno tasse per tutti" alla semplicistica flat tax proposta da Salvini, la riduzione delle tasse è una delle questioni centrali nelle politiche (o, se non altro, nelle promesse) della coalizione di destra.

Dal programma congiunto, però, non si possono ricavare altro che dichiarazioni di principio: vi si leggono dieci brevi punti, sotto il titolo "per un fisco più equo", carichi di promesse vaghe e incontestabili come "Riduzione della pressione fiscale per famiglie, imprese e lavoratori autonomi".

Dall’inglese all’italiano: la "tassa piatta"

C’è una novità rispetto al passato: la flat tax incrementale. Nel programma non ci sono particolari argomentazioni e nemmeno nei discorsi parlamentari si trovano molte informazioni. Più che spiegare e approfondire, Meloni enfatizza. E rilancia, italianizzando i termini, la nuova proposta fiscale. Alla Camera, Meloni ha infatti parlato di una "tassa piatta sull'incremento di reddito rispetto al massimo raggiunto nel triennio precedente: una misura virtuosa, con limitato impatto per le casse dello Stato, che può essere un forte incentivo alla crescita". Al Senato, nelle repliche, si è limitata a indicarla come "un modo per premiare il merito. Chi fa di più è giusto che venga premiato".

Come funziona la flat tax incrementale: un esempio

Ma come funziona questa "tassa piatta"? Per flat tax si intende un tipo di imposizione fiscale uguale per tutti, ossia un prelievo proporzionale. Che si guadagni 5mila euro all’anno o che il reddito raggiunga i milioni, la quota da versare allo Stato resterebbe in percentuale la stessa.

La proposta di Meloni applica questo sistema al solo incremento del reddito da un anno all’altro, con riferimento al triennio precedente. Per esempio, Tizio nel 2020 ha guadagnato 18mila euro, nel 2021 20mila e nel 2022 il suo reddito raggiunge i 22mila euro. Caio invece, nel triennio, ha un reddito costante di 18mila euro all’anno. Nell’attuale sistema fiscale, entrambi pagheranno le tasse nel secondo scaglione Irpef, al 25%. Con la flat tax incrementale, invece, Caio continuerà a pagare l’Irpef al 25%, mentre Tizio pagherà il 25% sul reddito, salvo per la sua quota di crescita: su quei 2mila euro di differenza da un anno all’altro pagherà solo il 15%.

Un dettaglio non trascurabile: la Costituzione

Già da questo esempio molto semplice si nota come Tizio e Caio, che hanno un reddito molto simile, pagherebbero in maniera diversa: Tizio, che già migliora la sua condizione con un aumento di reddito, verserebbe in proporzione meno tasse di Caio, che invece continua a poter contare sulle stesse entrate.

Al di là della disparità, c’è una questione che, quando si propone un'imposta piatta come la flat tax (incrementale o meno), non può essere ignorata: la progressività.

La Costituzione, infatti, all’articolo 53, pone questo criterio come principio alla base del sistema tributario.

Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.
Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.

Si tratta di un principio cardine della nostra carta fondamentale. Per garantire i diritti sociali a tutti, a partire da chi ne ha più bisogno, è necessario porre un dovere di solidarietà, che chiede di meno a chi ha di meno e di più a chi ha di più. Questo è il criterio di progressività, che mira alla redistribuzione della ricchezza e al finanziamento dei servizi pubblici, e che si fonda sull'idea che il sacrificio di una quota di reddito è tanto più accettabile quanto più aumenta la ricchezza, perché non incide sui bisogni. In altre parole, il 23% di imposta sulle persone fisiche prevista per lo scaglione più basso comporta per i cittadini più poveri un sacrificio paragonabile al contributo, percentualmente più alto, richiesto a chi ha redditi più alti.

Il semplicismo ideologico della meritocrazia alla base della misura

Da discorsi, documenti e programmi elettorali non è ancora possibile capire se la destra, nel proporre una misura proporzionale invece che progressiva, abbia ipotizzato almeno qualche meccanismo antielusivo. Così com'è, infatti, la proposta di tassa piatta incrementale si presta a gravi rischi di truffa (che, in altri termini, si traducono in minori entrate fiscali e, di conseguenza, meno denaro da spendere per garantire servizi e diritti).

L'esempio precedente ci aiuta a capire come possa essere conveniente aumentare il proprio reddito, così da pagare meno imposte sull'incremento.

Nella visione semplicistica di una società totalmente meritocratica a risorse infinite, potremmo pensare (come in effetti dichiara Meloni) che questa misura sia un incentivo alla crescita e al merito. Si tratta però di una visione che trascura, volutamente o per ingenuità, qualche fatto.

Primo. Non basta l'impegno per aumentare il proprio reddito. Se la fortuna aiuta gli audaci è pur vero che gli audaci lo sono spesso per loro fortuna (meno che per merito): formazione, conoscenze, titoli, opportunità sono variabili che derivano soprattutto da una rete di protezione familiare e di classe su cui sono normalmente i più ricchi a poter contare.

Secondo. L'arricchimento personale non comporta necessariamente una crescita sociale. L'appropriazione, la scalata, l'incremento di reddito possono essere (e spesso sono) miglioramenti egoistici, e in certi casi, perfino, possono danneggiare la società. Il venditore che smercia prodotti scadenti, l'imprenditore che riduce gli stipendi, l'avvocato che spinge i clienti a imbarcarsi in cause pretestuose e querele temerarie sono tutti esempi di professionisti che incrementano il proprio reddito a danno del benessere (e talvolta anche del reddito) di altri. E che su quell'incremento pagherebbero una tassa piatta, ridotta, a propria convenienza.

I rischi di truffa (specie con l'innalzamento del tetto del contante)

Accanto alla convenienza, però, sembrano offrirsi anche coni d'ombra. In controtendenza rispetto all'incentivo ai pagamenti elettronici, infatti, la Lega ha presentato una proposta di legge per alzare il tetto al contante a 10mila euro.

Ma che cosa c'entra il limite al contante con la tassa piatta sull'incremento di reddito?

La possibilità di pagare somme simili in contanti riduce la tracciabilità del denaro circolante. Questo significa che contribuenti poco onesti potrebbero pensare di posticipare fatturazioni, sfruttando il sistema di tassa piatta incrementale accantonando cifre in contanti.

Prendiamo l'esempio di un professionista che guadagni ogni anno 100mila euro. I suoi affari sono ben avviati, il reddito resta costante, l'aliquota Irpef è quella più alta, al 43%, ogni anno. Senza specifiche misure antielusive, con la tassa piatta incrementale, gli converrebbe farsi pagare in contanti, dichiarando poco quest'anno e di più l'anno prossimo, semplicemente posticipando le fatture di qualche mese, così da pagare il 15% sull'incremento (fittizio) invece che il 43% sul reddito costante.

Il sistema tributario non è lo Sceriffo di Nottingham

Ma torniamo alla teoria. Come si è visto, la proposta di Meloni di una flat tax incrementale, seppur su una quota ridotta del reddito, non si fonda sul criterio costituzionale della progressività, ma su quello semplicistico della proporzionalità: tutti pagano la stessa percentuale, anche se l'impatto di quella quota, su un ricco, è risibile rispetto al sacrificio che la stessa quota impone a chi è più povero.

La presidente del Consiglio, in Senato, ha dichiarato che sarebbe "un modo per premiare il merito" perché "chi fa di più è giusto che venga premiato". A conti fatti, però, il premio arriva a chi incrementa il proprio reddito, il che non implica necessariamente aver "fatto di più", ma può perfino indicare un'elusione fiscale (favorita anche dal ricorso più disinvolto al denaro contante) o, più in generale, un arricchimento ai danni di altri.

Inoltre, a ben guardare, una misura che diminuisce il gettito fiscale, cioè il denaro a disposizione della comunità, per arricchire chi ha già migliorato la propria condizione economica rispetto all'anno precedente, è di per sé un danno. Il nostro sistema tributario non è quello di Robin Hood, del Principe Giovanni e dello Sceriffo di Nottingham, in cui l'imposizione fiscale risponde al capriccio di chi comanda e toglie anche l'essenziale al popolo. La solidarietà contributiva è invece il modo attraverso cui garantiamo, al popolo, il funzionamento dei servizi pubblici e, con essi, la fruizione dei diritti.

Il "fisco equo" di destra dimentica l'equità

Il sistema fiscale attuale è giusto ed equo? No, o almeno non del tutto. Il problema è che è iniquo in senso opposto rispetto a quello indicato da chi governa. In Lettera a una professoressa, il testo scritto da don Lorenzo Milani con i ragazzi di Barbiana, si legge un'analisi che è ancora valida.

Povero è chi consuma tutte le sue entrate. Ricco chi ne consuma solo una parte. In Italia, per un caso inspiegabile, i consumi sono tassati fino all’ultima lira. Le entrate solo per burla. Mi hanno raccontato che i trattati di scienza delle finanze chiamano questo sistema ‘indolore’. Indolore vuol dire che i ricchi riescono a far pagare le tasse soltanto ai poveri senza che se ne avvedano.

Con il governo Draghi, c'è stata la riduzione degli scaglioni Irpef, ossia una riforma che ha ridotto ulteriormente i margini di progressività fiscale, e che ha diminuito le aliquote solo per i più ricchi (equiparando, tra l'altro, chi guadagna più di 50mila euro con chi invece ha entrate reddituali milionarie).

In precedenza, poi, abbiamo assistito al costante aumento dell'Iva, l'imposta sul valore aggiunto: siamo passati dal 12% del 1973 al 22% odierno. Si tratta di un'imposta indiretta, che si basa sul valore del prodotto invece che sulle condizioni di chi la paga e che finisce per avere un impatto maggiore sui più poveri.

O, ancora, polemiche e spauracchi su tasse sulla casa, patrimoniali e perfino sulla riforma del catasto aizzano chi ha un'abitazione di proprietà contro ogni tipo di imposizione, così favorendo il risparmio fiscale di chi di immobili ne ha molti, magari anche di lusso, e avrebbe la capacità contributiva di pagarci delle tasse.

"I ricchi riescono a far pagare le tasse soltanto ai poveri senza che se ne avvedano", e la flat tax incrementale rientra proprio in questa tendenza di "parti uguali tra diseguali", di equità sacrificata sull'altare del semplicismo. Il risultato sarà sempre lo stesso: ridurre il gettito fiscale, e quindi servizi e diritti, fingendo che sia un favore alle classi disagiate, che invece continueranno a pagare le stesse imposte che pagano ora, mentre i più ricchi avranno strumenti, legali o furbeschi, per pagare di meno, pur guadagnando di più.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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