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Opinioni

Il processo a Matteo Salvini è sacrosanto, ma non possono essere i giudici a fare opposizione

La democrazia trova i suoi anticorpi nella legalità, ma la legge non può diventare l’idolo dell’opposizione a Salvini: i giudici contano i danni, la politica deve invece agire per comprendere il presente e costruire il futuro. Il culto della legalità rischia anche di deresponsabilizzare i cittadini, lasciando intendere che legale e giusto siano sinonimi.
A cura di Roberta Covelli
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Il Tribunale dei ministri ha chiesto l’autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini per sequestro di persona: non si tratta, come il ministro cerca di spiegare, di una persecuzione alla sua volontà politica di bloccare gli sbarchi dei "clandestini" in Italia, né di difendere i confini, né tanto meno di garantire sicurezza agli italiani, quanto piuttosto dell'accusa di aver trattenuto su di una nave 177 persone. Il rispetto delle leggi da parte del cosiddetto Governo del cambiamento è tema interessante: da Salvini, che pubblica sulla sua pagina Facebook foto di minorenni che lo contestano, lasciando che i suoi seguaci provvedano al linciaggio social, a Bonafede che esibisce un arrestato diffondendo il video delle procedure di fotosegnalazione, fino a Toninelli che aderisce alla posizione di chiusura retorica dei porti senza emettere atti ufficiali che confermino la sua presunta volontà e, di fronte a un (illegittimo) respingimento in Libia, riesce perfino a citare non meglio precisate convenzioni internazionali.

Tornano d’attualità le parole che Piero Calamandrei dedicava al periodo fascista sul piano della legalità: "Non si osa governare senza le leggi, ma si istituisce come metodo di governo l'illegalismo, autorizzato a farsi beffa delle leggi".

In questo contesto, la magistratura fa il suo lavoro e non potrebbe fare altrimenti: principio di base del diritto italiano è infatti l’obbligatorietà dell’azione penale, ossia il fatto che i magistrati non possono scegliere quali illeciti perseguire, ma devono indagare ed eventualmente procedere per ogni notizia di reato ricevuta. Lamentarsi quindi di avvisi di garanzia e rinvii a giudizio come fossero attacchi politici o favori elettorali significa ignorare questo principio, su cui si basa il procedimento giudiziario.

È quindi naturale, e a suo modo positivo, che la magistratura faccia il suo lavoro, perché significa che la democrazia trova i suoi anticorpi nella legalità: il potere giudiziario, soggetto solo alla legge, quindi indipendente da quello esecutivo (il Governo) e quello legislativo (il Parlamento), rappresenta la bocca della legge, per usare una celebre sintesi.

Sia ben chiaro però che guardare con speranza all’esito di procedimenti giudiziari contro il governo non è fare opposizione. La magistratura interviene, per natura, con il ritardo di chi ha il compito di contare i danni. L’opposizione è altro: è elaborazione dell’alternativa, politica e umana, non è cristallizzazione dei rapporti di forza, ma è comprensione delle leve del potere e progetto di cambiamento, non agisce sul passato, per valutare colpe e comminare pene, ma agisce sul presente, per capirlo, e sul futuro, per immaginarlo e costruirlo.

Negli ultimi trent’anni, invece, sembra essere stato assegnato alla magistratura un ruolo retoricamente salvifico, principalmente da parte di forze di sinistra (che pure per natura dovrebbero essere le più distanti dalla concezione della legge come unica regolatrice del reale): il risultato non è stato soltanto garantire l’occasione per i politici via via coinvolti in procedimenti giudiziari di urlare al complotto, difendendosi dai processi invece che nei processi, ma ha finito per svuotare di contenuti l’identità politica dell’opposizione.

L’assenza di un’opposizione attiva e propositiva non è però l’unico danno dell’innalzamento del principio di legalità a valore politico rivoluzionario: il problema è anche e soprattutto culturale. Il rischio, infatti, è guardare alla legge come unico parametro di giustizia: ma se la legge è sempre giusta, ed è giusta in quanto legge, a che serve la coscienza? L’automatismo legalitarista solleva i singoli dal dovere di valutare i propri comportamenti su base etica, di prendersi responsabilità umane in quanto esseri pensanti. La legge non è giusta in quanto legge, è giusta se rispetta la dignità umana e i principi fondamentali delle socialdemocrazie: non sempre è così. Le leggi sono specchio di rapporti di forza: e se, a tutela dei diritti, resistono ancora le carte fondamentali antifasciste, è pur vero che la realtà evolve e che, se per censurare le leggi ingiuste sul piano formale esiste la Corte Costituzionale, per cambiare la realtà serve ancora la politica.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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