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Opinioni

Cosa c’è di profondamente sbagliato nella strategia del governo Meloni sulla Covid-19

L’esplosione di casi in Cina ci ricorda drammaticamente che la Covid19 è ancora un enorme problema di salute pubblica. E anche che il governo Meloni sembra tutt’altro che pronto.
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Ancorché confuse, dalla Cina arrivano notizie preoccupanti sull’evoluzione della pandemia da coronavirus. Con il drastico allentamento delle restrizioni deciso dal governo di Pechino, infatti, stiamo assistendo a un eccezionale aumento dei casi di Covid-19 e, con ogni probabilità, anche dei decessi. Come dovremmo ormai sapere, inoltre, la massiva circolazione del virus aumenta la possibilità di emersione di nuove varianti del virus, con il rischio che siano ancor più contagiose o addirittura in grado di minimizzare gli effetti dei vaccini. Siamo ovviamente nel campo della speculazione teorica e per il momento è necessario adoperare una buona dose di cautela (i primi riscontri indicano che in Cina circolano varianti già conosciute), ma la comunità scientifica internazionale segue con grande attenzione l’evolversi della situazione, per non ripetere gli errori degli ultimi anni.

Errori che, manco a dirlo, la politica sta puntualmente commettendo. Con la riduzione progressiva  delle strutture di tracciamento, sequenziamento e analisi, abbiamo sempre meno dati a disposizione per prevedere l'evoluzione del quadro epidemiologico. I governi hanno diminuito gli sforzi per le campagne vaccinali, tanto che in pochi sono coperti dai booster, anche tra gli anziani e i fragili. Le mascherine non sono più obbligatorie e le pratiche di igiene e distanziamento personale sono essenzialmente scomparse. I tamponi negativi di fine isolamento non sono più ritenuti necessari. La comunicazione istituzionale oscilla tra l'inutilmente rassicurante e l'allarmismo ingiustificato, finendo per risultare poco credibile per l'opinione pubblica.

La circolare con cui il governo italiano interviene solo sui voli diretti provenienti dalla Cina è un buon compendio di ciò che speravamo di non vedere più: misure inutili e raffazzonate della cui inutilità abbiamo avuto prova in passato (non hanno funzionato nella prima ondata, non hanno funzionato contro Omicron dal Sudafrica eccetera), non accompagnate da provvedimenti strutturali (isolamento e quarantene), che hanno l'unico scopo di mostrare ai cittadini di "avere la situazione in pugno". Nella conferenza stampa di fine anno, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha rivendicato l’efficacia dell’ordinanza del ministro Schillaci, aggiungendo di considerare del tutto sotto controllo la situazione Covid in Italia. Contemporaneamente, Meloni ha ripetuto per l’ennesima volta la sua contrarietà a interventi restrittivi delle libertà individuali, dicendosi convinta che occorra puntare sul senso di responsabilità dei cittadini. È un approccio che oscilla fra la supercazzola e il superficiale, diciamocelo chiaramente, perché riduce l'intera gamma delle opzioni di contrasto alla Covid al dualismo fra restrizioni/lockdown (che nessuno chiede o vuole) e non fare nulla. E che soprattutto tradisce una certa tendenza alla deresponsabilizzazione e alla riduzione in slogan di risposte che invece sono piuttosto complesse.

A essere discutibile è la lettura dell'intera "questione Covid-19". Innanzitutto, non si capisce bene cosa voglia dire Giorgia Meloni quando parla di approccio ideologico alla pandemia. È chiaramente una forzatura, che risente della lettura fuorviante e distorta che la destra italiana fa della risposta alla pandemia, rappresentata solo come un miscuglio fra repressione delle libertà individuali e scelte sbagliate in materia di politiche sanitarie. Non è sbagliato invece porre la questione sul piano politico, l'unico modo corretto di affrontare una seria analisi sul passato recente del nostro Paese e, soprattutto, di prepararsi a gestire la prossima sfida. Perché il punto è questo: siamo evidentemente in una zona grigia, in cui la Covid19 resta un problema di salute pubblica (i dati sull'eccesso di mortalità sono drammatici) ma chiaramente non può e non deve essere più affrontata con i parametri dell'emergenza. Servono una visione chiara, il rafforzamento strutturale del comparto sanitario (e la legge di bilancio del centrodestra non va per nulla in tale direzione) e una grande attenzione nel calibrare interventi mirati, nel caso fossero necessari. È tempo che la politica agisca, invece di inseguire gli eventi e di sperare che le cose si aggiustino da sole.

Dopo quasi tre anni di pandemia da coronavirus non abbiamo ancora ben chiaro un concetto: i lockdown, le chiusure, le restrizioni alla mobilità, così come le regole su quarantene, smartworking e didattica a distanza sono scelte eminentemente politiche, che sono solo parzialmente collegate ai "dati scientifici". A decisioni di questo tipo si arriva mettendo insieme una serie di valutazioni, tra cui l’impatto sociale, sanitario o economico, ma che essenzialmente rispondono anche agli orientamenti ideologici, alle convinzioni politiche e (ahinoi) alle strategie di consenso dei decision maker. Dopo la fase dell'impreparazione e della sorpresa, la storia della gestione della pandemia è stata questa: la politica ha scelto di volta in volta il punto di equilibrio, sancendo cosa fosse accettabile e in che termini (morti, pressione su ospedali, impoverimento scolastico, ripercussioni sul tessuto produttivo e via discorrendo).

Si è sempre trattato di scelte di cui le forze politiche avrebbero dovuto assumere la responsabilità, sottoponendosi al giudizio dei cittadini, senza trincerarsi dietro formule vuote del tipo "agiamo solo in base ai dati della scienza" (a maggior ragione quando ciò non è avvenuto). Chiaramente, le indicazioni scientifiche, si spera il più possibile corrette tecnicamente, orientate eticamente e frutto di processi trasparenti, costituiscono la base imprescindibile su cui adottare decisioni in tema di salute pubblica. E il ruolo dei tecnici e degli esperti è quanto mai fondamentale per le valutazioni dei decisori. Che però, appunto, vanno inserite in un contesto più ampio, un quadro d'insieme in cui onere e onore di decidere spettano a chi ha in mano la gestione della cosa pubblica.

Dire "abbiamo agito solo in base alla scienza" non ha alcun senso e non costituisce una giustificazione o un modo per sottrarsi alle proprie responsabilità. Meloni dimostra di non aver capito molto della gestione pandemica e, soprattutto, di essersi incartata su una linea che è un potenziale pericolo per le politiche di sanità pubblica. Perché se sbagli la lettura degli eventi passati, difficilmente puoi essere pronta ad agire con efficacia in futuro.

Proviamo ad andare con ordine. A essere obiettivi, non è affatto vero che in Italia si sia agito seguendo scrupolosamente le indicazioni della comunità scientifica o degli organismi internazionali. Del resto, malgrado la guida politica e quella scientifica al ministero della Salute siano rimaste le stesse, la gestione della pandemia è stata rapsodica, ben poco lineare e fatta di "momenti" diversi. Se vogliamo, è proprio ciò che è mancato: la capacità di seguire un percorso chiaro, una strategia che andasse oltre il brevissimo periodo e che rispondesse a obiettivi ben precisi. È stata una continua corsa a inseguire, anche successivamente alla fase emergenziale (su cui, piccolo inciso, stiamo leggendo e sentendo una marea di sciocchezze e letture col senno di poi da media e ambienti di governo). Sono stati mesi confusi, con tante giravolte e cambiamenti di linea, di strategia e di comunicazione. Soprattutto, è stato un periodo di grandissima sofferenza. Decine di migliaia di morti, di ricoveri, di contagi con effetti a lungo termine. Milioni di famiglie devastate da paura e incertezza, interi settori produttivi messi a repentaglio, decine di migliaia di lavoratori del settore sanitario a un passo dal burnout. Prima del vaccino e in assenza di informazioni chiare sulla malattia e il suo decorso, non avevamo altre armi che non fossero le pratiche di igiene individuale e le restrizioni a contatti e mobilità.

Sembriamo aver dimenticato tutto così in fretta, specie dopo la cancellazione per decreto della pandemia arrivata con il governo Draghi. Da lì è cambiato tutto, almeno nella percezione pubblica della pandemia. L'eliminazione del sistema delle zone bianche, gialle e arancioni (mai davvero efficace e sempre oltremodo confusionario), l'archiviazione di quasi ogni limitazione per i non vaccinati, la durata illimitata del green pass e le norme sulla scuola, oltre che le regole sulle quarantene: sono stati questi i principali provvedimenti che hanno segnato il passaggio decisivo nel percorso di ritorno alla normalità. O meglio, nel modo in cui i cittadini (e a cascata le forze politiche) hanno cominciato a percepire la Covid19. Quella lettura è esattamente la stessa di adesso: in altre parole, nella narrazione dominante non si riesce più nemmeno a comprendere il motivo per cui i governi occidentali si ostinassero a imporre restrizioni e obblighi (per quanto blandi), non si rintracciano le reali ragioni che avevano portato a scelte specifiche, si decontestualizzano i fatti e si elaborano giudizi sulla base del contesto attuale.

È un processo ormai compiuto, una gigantesca e rapida rimozione della memoria, determinato da una scelta fatta dalla quasi totalità dei governi occidentali in un preciso momento storico. Ovvero, la resa all’infezione di massa, confidando nella minore gravità della malattia da Omicron e nella crescita della copertura vaccinale, con l’accettazione di migliaia di morti come "naturale prezzo da pagare" per incamminarsi verso la nuova normalità. Anche questa è stata una decisione politica, che solo una narrazione distorta, grossolana e imprecisa ha trasformato in “scelta inevitabile e basata sulle evidenze scientifiche”.

Lo ripetiamo ancora una volta: il numero di contagi e morti è sempre stato la risultante di un insieme di fattori, tra cui certamente le caratteristiche intrinseche delle varianti, ma anche le scelte dei governi, la tempistica degli interventi, la qualità e incisività delle norme, i comportamenti della popolazione. Se si eccettua la prima fase, di enorme confusione e incertezza (con scelte praticamente obbligate, prese del resto praticamente ovunque), abbiamo sempre avuto un ventaglio di opzioni. Se proprio volessimo trovare un senso alla Commissione parlamentare d'inchiesta di cui si fa un gran parlare sarebbe questo: valutare gli effetti di tali scelte, ricostruire le tempistiche di chiusure e aperture, analizzare gli errori per non commetterne in futuro. Peccato che Meloni e la destra (nonché Renzi) intendano esattamente il contrario: un processo a quella che è attualmente l'opposizione per la gestione della fase acuta della pandemia, con un lampante pregiudizio verso le decisioni più prudenti e conservative (peraltro nella stragrande maggioranza condivise dalle amministrazioni regionali di ogni colore).

Di certo c'è solo che per Meloni il peggio è passato: siamo nelle condizioni di fare scelte consequenziali e di affidarci unicamente al senso di responsabilità degli italiani, cui chiediamo di vaccinarsi per una malattia che non dovrebbe più far paura, magari per poi stupirci del basso numero di booster. E, ancora una volta, ci siamo ridotti a sperare che le cose non vadano peggio.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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