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Con il ricorso contro la Puglia sul salario minimo il governo Meloni ha tentato ancora di attaccare i lavoratori

La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile il ricorso della presidente del Consiglio, con cui l’esecutivo accusava la legge regionale pugliese di istituire il salario minimo legale.
A cura di Roberta Covelli
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Mesi fa, il governo di Giorgia Meloni ha impugnato davanti alla Corte costituzionale la legge della Regione Puglia che, applicando il Codice degli appalti, fissa una soglia minima di retribuzione nei contratti firmati da aziende partecipate. Ora la Consulta ha dichiarato inammissibile quel ricorso. Ma non è sulla decisione dei giudici costituzionali che dovremmo soffermarci, bensì sull’atto del governo, che, se da un lato dimostra una preoccupante superficialità nella conoscenza delle norme, dall’altro conferma una linea politica ormai costante contro l'interesse dei lavoratori. Ma andiamo con ordine.

Che cosa prevede la legge regionale pugliese

La legge regionale pugliese 21 novembre 2024, n. 30, impugnata dal governo Meloni, prevede che "la Regione, le Aziende sanitarie locali, le aziende ospedaliere, le Sanitaservice, le agenzie regionali e tutti gli enti strumentali regionali" indichino, nelle procedure di gara, il contratto collettivo nazionale di lavoro da applicare. A questa previsione il legislatore pugliese affianca una clausola sociale, stabilendo che il contratto collettivo individuato debba garantire una retribuzione tabellare non inferiore a 9 euro l’ora.

L’impugnazione del governo si fonda sull’idea che una simile previsione introdurrebbe, surrettiziamente, un salario minimo legale, travalicando le competenze regionali e aprendo un conflitto di attribuzioni. Ma basterebbe leggere la norma, e il quadro normativo in cui si inserisce, per accorgersi che si tratta della semplice applicazione dell’articolo 11 del Codice dei contratti pubblici, approvato con il decreto legislativo n. 36 del 2023. Una norma, varata tra l’altro sotto il governo Meloni, che impone alle stazioni appaltanti di indicare, nei bandi di gara, il contratto collettivo da applicare. Nell’indicarlo, e nel prevedere un’ulteriore clausola sociale con una soglia monetaria minima, la norma pugliese non sta quindi imponendo un salario minimo legale generalizzato, ma fissa semplicemente una condizione per contrattare con la pubblica amministrazione.

Si tratta, peraltro, di una soluzione pienamente coerente con il diritto europeo: la direttiva 2014/24/UE, infatti, consente e incoraggia l’uso delle clausole sociali come strumento di tutela delle condizioni di lavoro e di retribuzione, riconoscendo agli Stati e alle amministrazioni pubbliche la possibilità di subordinare l’accesso alle gare al rispetto di standard sociali minimi.

L’impugnazione del governo si basa su un argomento fantoccio (e per questo è inammissibile)

Il ricorso del governo è quindi stato dichiarato inammissibile perché fondato su un presupposto errato. L’Avvocatura dello Stato ha infatti costruito l’impugnazione come se la Regione avesse introdotto una retribuzione minima generale, invadendo la competenza legislativa statale. Ma la norma regionale non pretende di regolare materie nazionali: opera esclusivamente sul piano delle procedure di gara, disciplinando i requisiti per l’accesso agli appalti pubblici di cui è parte contraente.

L’impugnazione si fonda così su un vero e proprio argomento fantoccio: la legge viene attaccata non per ciò che effettivamente dispone, ma per una sua versione distorta, con l'accusa al legislatore regionale di oltrepassare i limiti di competenze imponendo un salario minimo che la norma, in realtà, non istituisce.

Se già è spiacevole constatare l’incapacità del governo di comprendere la portata reale della disposizione che impugna, è ancora più sconfortante rilevare che il salario minimo viene combattuto anche quando non c’è. Una reazione che non è frutto di un errore occasionale, ma che finisce per confermare, ancora una volta, la linea politica della destra guidata da Giorgia Meloni: un’opposizione sistematica a qualsiasi misura che, anche solo indirettamente, rafforzi le tutele per i lavoratori.

La conferma politica: Giorgia Meloni contro i diritti dei lavoratori

Che per Giorgia Meloni i diritti dei lavoratori non siano una priorità è stato dimostrato più volte. Nei primi mesi di governo, si è cominciato smantellando ciò che restava del reddito di cittadinanza e affossando la proposta parlamentare di un salario minimo legale, trasformata in legge delega, annacquata nel testo (e ignorata negli ultimi due anni e mezzo).

L’attacco ai diritti sul lavoro ha avuto anche una valenza simbolica: nel 2023 e nel 2024 il primo maggio è stato sfruttato retoricamente per convocare il Consiglio dei Ministri ("Nel giorno della festa dei lavoratori, il governo sceglie di lavorare"). Nel 2023 ne è scaturita una riforma pasticciata che ha ampliato le possibilità di ricorso al contratto a termine acausale. Nel 2024, l’onda emotiva per la strage nel cantiere di Firenze ha spinto il governo a una risposta classica: un populismo penale fatto di inasprimento delle sanzioni, senza garantire le risorse necessarie agli ispettorati del lavoro e agli altri enti di controllo. Se dopo il caso di Satnam Singh, alla commemorazione delle vittime sul lavoro, Meloni si è vantata di 1600 assunzioni, i dati ufficiali non le danno ragione e rivelano la disperante carenza di personale per la vigilanza sulla sicurezza.

Il 2025 ha confermato la linea: dall’invito all’astensione al referendum su lavoro e cittadinanza, passando per tentativi di ridurre le tutele. In estate, ad esempio, con l’emendamento Pogliese nel decreto Ilva, che avrebbe limitato il diritto dei lavoratori a rivendicare crediti e retribuzioni, o la proposta dei relatori di Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia sul lavoro somministrato, volta a prolungare le missioni e rendere più conveniente il lavoro precario. O il mese scorso, l’emendamento Gelmetti alla legge di bilancio, per introdurre l’obbligo di preavviso di sciopero da parte dei singoli lavoratori, mostrando ancora una volta l’attenzione selettiva del governo verso i diritti sindacali. Tutte proposte poi ritirate di fronte alle proteste, con la promessa di una riproposizione con più calma, secondo una prassi che caratterizza questo governo fin dal principio.

Impossibile non citare il rapporto con i sindacati: da un lato la partecipazione di Meloni all’assemblea nazionale della CISL, con discorsi in linea con una logica corporativista che nega il conflitto; dall’altro il costante attacco al diritto di sciopero, sia retorico sia pratico, come dimostrano le azioni (illegittime) di precettazione da parte di Salvini.

L’ultimo atto, per ora, è l’impugnazione della legge pugliese sul salario minimo nelle aziende partecipate: un provvedimento semplice, pensato per garantire stipendi dignitosi lungo la filiera degli appalti pubblici, che il governo ha tentato di smontare, confermando la sua ostilità verso i diritti dei lavoratori.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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