Aziende, fondi di investimento, università e piattaforme online: chi alimenta la guerra a Gaza secondo l’Onu

Bulldozer e caccia bombardieri, intelligenza artificiale e algoritmi predittivi, fino a piattaforme di prenotazione online: secondo l'ultimo rapporto della Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei Territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, l'invasione militare israeliana non sarebbe solo il risultato di decisioni politiche o strategiche, ma l'esito di un sistema economico transnazionale esteso e articolato, composto da attori finanziari, tecnologici e industriali che da anni traggono profitto dall'occupazione della Palestina.
Con il titolo "Dall'economia dell'occupazione all'economia del genocidio", il documento denuncia un salto di qualità nella complicità economica internazionale rispetto alla situazione nei Territori occupati: una rete che non si limiterebbe più a sostenere l'occupazione e la colonizzazione illegale, ma che, secondo Albanese, concorre attivamente a incentivare e sostenere la pulizia etnica in corso nella Striscia di Gaza. Il rapporto, che sarà presentato ufficialmente a Ginevra in conferenza stampa, si basa su un'indagine approfondita condotta dall'ufficio del mandato speciale delle Nazioni Unite. Al centro dell'analisi una mappatura dettagliata di oltre mille imprese e istituzioni che, a diversi livelli, avrebbero fornito supporto diretto o indiretto all'occupazione israeliana e alle operazioni militari attualmente in corso. Tra queste, ben 48 aziende sarebbero state formalmente identificate e notificate per il loro coinvolgimento in attività che, secondo quanto riportato nel rapporto, violerebbero il diritto internazionale e contribuirebbero a crimini di guerra e crimini contro l'umanità.
Quali sono le aziende che sostengono Israele secondo il rapporto Onu

Al centro del rapporto ci sarebbe un'affermazione chiara: l'apparato coloniale israeliano non potrebbe operare senza il sostegno continuo di attori privati e istituzionali. Secondo quanto denunciato nel documento, infatti, aziende multinazionali, istituzioni finanziarie e accademiche, colossi tecnologici e piattaforme turistiche contribuirebbero, ciascuno nel proprio ambito, a sostenere e rafforzare l'occupazione e le operazioni militari israeliane a Gaza. Il coinvolgimento economico, si legge nel rapporto, assumerebbe così molteplici forme: dalla fornitura di armi e tecnologie di sorveglianza, alla costruzione di infrastrutture per gli insediamenti coloniali, fino all'erogazione di strumenti finanziari funzionali al mantenimento dell'economia di guerra.

Persino piattaforme turistiche svolgerebbero un ruolo nel normalizzare l'occupazione nei territori palestinesi. Tra i soggetti più rilevanti indicati nel documento figurano grandi aziende del settore tecnologico come Microsoft, Alphabet (Google), Amazon e anche IBM. Queste, secondo l'analisi dell'ONU, sarebbero coinvolte nella gestione di dati biometrici dei palestinesi, nella sorveglianza di massa e nel supporto all'infrastruttura digitale del regime militare israeliano. In particolare, IBM viene accusata di gestire il database centrale dell'Autorità israeliana per l'immigrazione e le frontiere (PIBA), mentre Palantir Technologies avrebbe fornito sistemi di intelligenza artificiale e polizia predittiva per l'individuazione automatizzata dei bersagli a Gaza, attraverso strumenti già noti come Lavender, Gospel e Where's Daddy?.

La complicità economica non si limiterebbe però soltanto al settore tecnologico: anche Leonardo S.p.A., colosso italiano della difesa, è menzionata tra i fornitori chiave di componenti per i caccia F-35, in collaborazione con Lockheed Martin e un'ampia rete internazionale di aziende. A queste si aggiungono altri nomi, come Caterpillar, Volvo, HD Hyundai e Rada Electronic Industries, accusate di fornire macchinari e veicoli pesanti impiegati per la demolizione sistematica di abitazioni palestinesi, finalizzata alla costruzione di nuove colonie illegali in Cisgiordania.
Il rapporto Onu parla di "opportunità di profitto"
L'espressione utilizzata da Francesca Albanese, "economia del genocidio", non sarebbe stata scelta a caso: secondo quanto documentato nelle 39 pagine del report, l'invasione militare israeliana a Gaza non sarebbe soltanto sostenuta da una rete di attori economici internazionali, ma rappresenterebbe anche, e soprattutto, un'opportunità di profitto per molti di essi. Il documento illustra infatti come la spesa militare israeliana abbia registrato un'impennata del 65% tra il 2023 e il 2024, toccando i 46,5 miliardi di dollari. Parallelamente, la Borsa di Tel Aviv ha conosciuto una crescita senza precedenti: +179%, con un incremento in valore di mercato pari a circa 158 miliardi di dollari. Per Albanese, si tratterebbe di un indicatore concreto del fatto che l'economia israeliana, e i suoi partner commerciali, starebbero traendo vantaggio diretto dal conflitto armato. A confermare la dimensione globale di questo "sistema economico", il rapporto mette in evidenza il ruolo dei grandi fondi di investimento internazionali: BlackRock e Vanguard, i due maggiori gestori di asset a livello mondiale, che risultano tra i principali investitori in molte delle aziende coinvolte. BlackRock, ad esempio, detiene partecipazioni significative in colossi come Microsoft, Amazon, IBM, Lockheed Martin e Palantir. Vanguard, da parte sua, ha investito pesantemente in Caterpillar, Chevron ed Elbit Systems, la principale azienda bellica israeliana.
Università, piattaforme turistiche e aziende agricole
Non si tratterebbe però soltanto di armi o tecnologia militare: il report evidenzia anche forme di "complicità meno visibili", che sarebbero altrettanto strutturali: vengono citati ad esempio importanti atenei e centri di ricerca, come il Massachusetts Institute of Technology (MIT) e l'Università di Edimburgo, che secondo il rapporto collaborerebbero a progetti scientifici legati al comparto militare israeliano. Il documento denuncia inoltre il ruolo delle piattaforme turistiche come Booking.com e Airbnb, accusate, più o meno indirettamente, di normalizzare la colonizzazione offrendo alloggi e promozioni in insediamenti illegali nei Territori occupati. Airbnb, che nel 2018 aveva annunciato l'intenzione di ritirare gli annunci presenti nelle colonie, avrebbe poi cambiato strategia decidendo di donare i profitti a cause umanitarie, una scelta che il rapporto definisce "humanitarian-washing": un modo cioè per mascherare la complicità dietro l'alibi della beneficenza.
Anche il settore agricolo sarebbe incluso tra quelli che traggono beneficio dall’occupazione: la cinese Bright Dairy & Food, proprietaria di Tnuva (che altro non è che la più grande azienda alimentare israeliana), e la messicana Orbia, controllante dell’impresa di irrigazione Netafim, vengono indicate nel rapporto come beneficiarie dirette dell'espropriazione delle risorse naturali palestinesi, in particolare acqua e terra coltivabile, a vantaggio dell'agricoltura nei territori colonizzati.
La responsabilità delle aziende
Uno dei nuclei centrali del rapporto riguarda poi la responsabilità giuridica delle imprese coinvolte: il report afferma in modo netto che le aziende non devono e non possono più nascondersi dietro il principio della neutralità commerciale. Il diritto internazionale, in particolare le norme sui crimini di guerra, contro l'umanità e sull'apartheid, impone anche agli attori economici privati l’obbligo di non contribuire a violazioni dei diritti umani. Il documento fa notare infatti che proseguire nella collaborazione con le forze armate israeliane, con le istituzioni pubbliche e con l'economia dei territori occupati potrebbe configurare una partecipazione consapevole a crimini internazionali, tra cui l'apartheid, l'annessione illegale di territorio, il trasferimento forzato della popolazione e persino il genocidio. E le conseguenze giuridiche non si limiterebbero all'impresa, ma potrebbero coinvolgere i dirigenti in prima persona, anche di fronte a corti penali internazionali.
Il testo richiama poi esplicitamente lo Statuto di Roma, il fondamento giuridico della Corte penale internazionale (CPI), e si collega poi anche alla recente opinione consultiva emessa dalla Corte internazionale di giustizia (luglio 2024), secondo la quale l'occupazione israeliana nei Territori palestinesi è da considerarsi illegale e assimilabile a un atto di aggressione. In base a questo giudizio, ogni rapporto economico o commerciale che contribuisca al mantenimento di tale situazione potrebbe quindi configurarsi come complicità in un crimine internazionale.
Il boicottaggio come strategia politica
Il rapporto riconosce infine che i tempi della giustizia internazionale sono lenti, e che le responsabilità delle imprese rischiano di rimanere impunite a lungo. Secondo Albanese, però, esiste già oggi uno strumento concreto a disposizione della società civile: il boicottaggio. Boicottare non sarebbe solo un gesto etico, ma una strategia politica di pressione per interrompere il flusso di denaro, legittimazione e profitti che alimentano il sistema dell'occupazione e della repressione israeliana a Gaza.