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Libia dopo Gheddafi, quello che c’è da sapere sul Paese dove regna il caos

La caduta del regime di Gheddafi ha creato una situazione di instabilità che favorisce gli estremisti islamici. Ecco chi si contende il potere in Libia oggi.
A cura di Mirko Bellis
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Quando Muammar Gheddafi fu trascinato fuori da un condotto dell'acqua nella sua città natale di Sirte e poi sommariamente giustiziato dalle forze ribelli nell'ottobre del 2011, gran parte del mondo pensò che si sarebbe disegnato un nuovo futuro per la Libia dopo la fine di una dittatura durata 42 anni.

In realtà, il vuoto di potere lasciato dalla caduta del regime di Gheddafi ha creato una situazione di insicurezza che non solo continua a minacciare la regione, ma che ha anche implicazioni più ampie nella lotta globale contro l'estremismo islamista. Il dopo Gheddafi ha portato il Paese nel caos dove le milizie armate si sono impossessate di varie zone del paese.

La Libia è divisa tra due governi rivali e due parlamenti: la Camera dei Rappresentanti a Tobruk – riconosciuta dalla comunità internazionale – e il Congresso Generale Nazionale con sede a Tripoli, sostenuto dalla coalizione filo-islamista di Alba Libica.

Dopo più di un anno di guerra civile le due autorità che si contendono il potere non riescono ancora ad approvare il nuovo governo di unità nazionale. Un accordo mediato dalle Nazioni Unite e firmato da entrambe le parti a metà dicembre del 2015 ha dato un breve barlume di speranza svanito in appena un mese.

Secondo gli accordi conclusi l’anno scorso, il governo libico dovrebbe essere presieduto dal deputato di Tobruk, Fayez al Sarraj, affiancato da tre vicepresidenti rappresentanti delle tre aree geografiche della Libia: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan.

Nonostante le pressioni internazionali e gli inviti del nuovo inviato dell’Onu in Libia, Martin Kobler, il momento della nascita di un governo libico sembra non arrivare ancora. Anche se la maggioranza dei membri dei due parlamenti ha annunciato pubblicamente di appoggiare il piano proposto dalle Nazioni Unite, una minoranza di deputati – sia a Tripoli che a Tobruk – si oppongono alla votazione del nuovo governo di transizione.

La votazione prevista ieri al parlamento di Tobruk è saltata per mancanza del numero legale. "Il quorum richiesto (89 parlamentari) non è stato raggiunto ed il presidente della camera ha interrotto la sessione", ha detto il deputato Mohamed al-Abbani. Il voto di fiducia quindi al nuovo governo slitta alla prossima settimana. La lentezza del processo politico preoccupa sempre di più le cancellerie occidentali. Un governo legittimo infatti potrebbe dare la necessaria autorizzazione al sempre più imminente intervento occidentale contro gli jihadisti dello Stato islamico.

Di fronte a questo ennesimo rinvio, l'inviato delle Nazioni Unite in Libia, Kobler ha affermato: "Sono preoccupato per le numerose segnalazioni di minacce e intimidazioni verso alcuni membri della Camera dei rappresentanti. Questo è inaccettabile”.

Secondo molti osservatori internazionali, uno degli ostacoli più grandi alla normalizzazione della Libia è rappresentato dal generale Haftar che, forte delle recenti vittorie a Bengasi, sta cercando in tutti i modi di condizionare la formazione del nuovo governo.

Per capire la personalità e le intenzioni di questo militare può essere d’esempio lo scambio di tweet avvenuto oggi tra l’inviato delle Nazioni Unite e lo stesso generale:

Ma chi è il generale Khalifa Belqasim Haftar? Il generale aiutò Gheddafi nel colpo di stato del 1969 che portò alla caduta del re Idris e alla fine della monarchia in Libia. Fu nominato Capo di stato maggiore dell’esercito ma poi cadde in disgrazia dopo essere stato catturato durante la guerra contro il Ciad nel 1987. Nel 1990 si stabilì negli Stati Uniti per due decenni. Nel 2011 è tra i protagonisti della rivolta che ha spodestato Gheddafi divenendo uno dei principali comandanti ribelli nell’est del Paese. L'anno scorso è stato nominato capo delle forze armate dal parlamento di Tobruk.

Le azioni militari del generale Haftar sono state spesso condannate dal governo di Tripoli. Il premier del Congresso Generale Nazionale, Khalifa al-Ghweil, ha più volte promesso di “vendicare” i raid dell’aviazione su Ajdabiya e Bengasi, definiti da Tripoli come “un atto criminale”.

Il generale Haftar vorrebbe altre armi per condurre la sua lotta contro gli estremisti islamici. Il generale infatti ha chiesto la fine dell’embargo sulle armi che ancora pesa sulla Libia. La mancanza di armamento adeguato è stata, secondo il capo dell’esercito libico, una delle cause dell’avanzata dei jihadisti dello Stato islamico.

Come accaduto in altri Paesi arabi, l’assenza di un governo legittimo ha permesso ai gruppi terroristi di prosperare. I miliziani dello Stato islamico e quelli di Al Qaeda – rappresentati in Libia da Ansar al Sharia – nel corso degli ultimi anni sono riusciti a controllare una parte sempre maggiore di territorio. Per lo Stato islamico, la Libia ha un valore strategico rilevante. Dalla fine del 2014, l'Isis è riuscita a creare tre wilayat o distretti: Tarablus lungo la costa occidentale; Fezzan nel sud-ovest e Barqah a est. A Sirte – la città natale di Gheddafi –  i jihadisti hanno stabilito la loro roccaforte. Secondo un rapporto degli Stati Uniti, lo Stato islamico in Libia può contare fino a 5mila uomini. Nel Paese nordafricano inoltre l’organizzazione terrorista controlla i traffici di contrabbando della rotta sub-sahariana. La Libia viene usata come un importante terreno di reclutamento di combattenti stranieri provenienti dai Paesi vicini (principalmente Tunisia, Algeria, Egitto ma anche Sudan, Nigeria e Ciad). L'azione di sabotaggio degli estremisti dell’Isis si è concentrata anche sulla produzione di petrolio. In gennaio hanno attaccato i due maggiori stabilimenti libici di estrazione del greggio ad Al-Sidra, Es Sider e Ras Lanuf nel golfo della Sirte. I proventi del petrolio in Libia sono pari al 60 per cento del PIL. Dal 2013 la produzione di greggio è caduta da 400mila a 362mila barili al giorno e le perdite per le casse della compagnia libica sono di 68 miliardi di dollari (circa 63 miliardi di euro). I livelli di produzione attuali sono ormai lontani dai 1,61 milioni di barili al giorno estratti nel 2011 prima della rivolta contro Muammar Gheddafi.

Per Al Qaeda, la Libia è da sempre un focolaio di reclutamento. Uno dei suoi ex leader, Abu Yahya al-Libi, era un cittadino libico. Le città di Derna e Bengasi (in Cirenaica, est della Libia), sono state solide basi di sostegno per il gruppo terrorista che, ancora oggi, può contare su numerosi appoggi. La Brigata dei Martiri di Abu Salim – che controlla Derna – e Ansar al-Sharia – il gruppo che ha realizzato nel 2012 l’attacco contro il consolato degli Stati Uniti a Bengasi – sono entrambe alleate di Al Qaeda. Dopo la caduta del regime di Gheddafi nel 2011, l'organizzazione ha ampliato la sua base operativa nel deserto sud-occidentale della Libia, stabilendo strette alleanze con le tribù nomadi tuareg.

Nella lotta per il potere non deve essere neppure sottovalutata la figura di Ibrahim Jadran, giovane ex rivoluzionario e comandante dei reparti posti a protezione dei giacimenti petroliferi in Cirenaica. Jadran, formalmente avversario degli islamisti, è stato recentemente accusato dal presidente della compagnia petrolifera nazionale (NOC, National Oil Corporation), Mustafa Sanalla, di avere come obiettivo la destabilizzazione della Libia. In caso di una divisione territoriale del Paese, Jadran a  capo di un “esercito” di 27mila uomini, potrebbe decidere di fondare un proprio “emirato petrolifero” con l’appoggio della sua tribù Magharba.

E intanto la Libia senza un governo nazionale, dove ogni milizia rappresenta un centro di potere autonomo, sprofonda nel caos ogni giorno che passa.

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