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Perché proprio Obama ha fallito nel superamento dei pregiudizi razziali

La rivoluzione che ci si aspettava dal primo Capo di Stato nordamericano nero non è mai avvenuta. Anche per questo la comunità afro ha voltato le spalle a Barack nelle elezioni di Midterm.
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Ferguson brucia. Los Angeles brucia. New York brucia. Cleveland brucia. Houston brucia. È lungo l'elenco delle città americane sconvolte dalle proteste contro la sentenza di assoluzione dell'agente di polizia Darren Wilson che, il 9 agosto scorso, ha ucciso durante un controllo di polizia il 18enne afroamericano Michael Brown. La tensione, mai del tutto sopita in quel di Saint Luis – alla cui periferia si trova Ferguson, nello stato del Missouri – è stata riaccesa quando il Gran Giurì della contea Robert P. McCulloch (democratico, eletto ininterrottamente alla carica dal 1991) ha deciso di non incriminare il funzionario di polizia per l'uccisione del ragazzo che, secondo le ricostruzioni più accreditate, non era neanche armato al momento del fermo.

Le pagine dei quotidiani di tutto il mondo sono piene di ricostruzioni relative al cosa sia successo in quelle drammatiche ore e, soprattutto, cosa stia accadendo in questo momento negli Stati Uniti e in altri paesi, come il Regno Unito, dove le comunità afroamericane (sempre più supportate da un crescente numero di persone non appartenenti a quella realtà), protestano contro il ritorno dilagante del razzismo e di movimenti estremisti come il KKK (il Ku Klux Klan). In realtà il razzismo, l'esclusione sociale e la divisione in caste della società occidentale c'è sempre stata e prosegue a prescindere dal colore della pelle. Basti pensare alle distinzioni che si fanno in Italia sulla provenienza geografica (Nord contro Sud), alla discriminazione che avviene su base etnica (in Europa si pensi ai Rom, ai Nord africani del Maghreb e agli africani stessi senza dimenticare coloro che provengono dal Sud Est asiatico, negli Stati Uniti in particolare contro i neri e gli ispanici) e infine agli episodi di intolleranza che riguardano stili di vita e orientamenti sessuali considerati sbagliati (i casi di violenze verso i rappresentanti della comunità Lgbt sono, purtroppo, sempre più all'ordine del giorno).

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Tuttavia la rabbia di Ferguson e in sintesi della comunità nera nordamericana ha una peculiarità: ha il sapore dell'amarezza per l'ennesima grande occasione persa per cementificare un significativo passo in avanti verso l'accettazione di quelle comunità che, ancora troppo erroneamente e superficialmente, vengono identificate come minoranze. In particolar modo a rendere questa sconfitta ancora più amara è il fatto che al momento l'uomo più potente del mondo, per definizione s'intende, il capo dell'esercito più reattivo del globo e la guida del paese che si autoproclama come guida degli altri paesi in termini di democrazia tout court (vantando più che giustamente, ad esempio, di essere stata la prima nazione a dotarsi di una Costituzione scritta nella storia) è nero.

L'amministrazione di Barack Obama, definita ormai apertamente tra le più mediocri della storia Usa, ha perso l'occasione di imprimere quel necessario colpo di reni verso il superamento di pregiudizi razziali e, soprattutto, verso il rinnovamento dei parametri di giustizia sociale che tutto il mondo si auspicava e si aspettava dall'arrivo del primo inquilino nero della Casa Bianca. Certo non è possibile imputare alla singola figura di Obama quanto avvenuto a Ferguson, sarebbe da stupidi oltreché da irresponsabili, ma purtroppo l'episodio del Missouri non è stato né il primo né il più eclatante avvenuto sotto la guida di Obama. E fermo restando che la struttura federale Usa garantisce grande libertà d'azione ai singoli Stati e quindi ai relativi governatori, la presenza di un Capo di Stato nero ha evidentemente sortito effetti scarsi o nulli sulla coltre di pregiudizi e violenze che caratterizzano da sempre la realtà nordamericana.

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D'altronde il dato emerso dalle recenti consultazioni di Medio Termine ha messo chiaramente in evidenza che la comunità afro – storica sostenitrice di Obama insieme a quella delle donne –, ha voltato le spalle al suo campione perché profondamente delusa dal mancato cambio di rotta su temi di centrale importanza e su tutti proprio la lotta al disparità sociale e al razzismo imperante soprattutto tra le forze di polizia. Fermo restando, ancora una volta, l'indipendenza del sistema giudiziario americano, soprattutto a livello locale, a colpire non è tanto che agenti di polizia (fatalità sempre o quasi bianchi) uccidano cittadini neri (in troppi casi disarmati), ma che i primi vengano troppo raramente giudicati e puniti adeguatamente per le loro azioni. E mentre il dibattito criminologico relativo alla maggiore propensione nera verso il crimine sembra superato da una realtà ben diversa, secondo i dati più recenti rilasciati dalla Fbi i crimini commessi dai bianchi supererebbero di gran lunga quelli commessi dai neri e dagli ispanici (e si assiste sempre alla disparità di condanne – in termini di durata ad esempio del periodo di detenzione – a parità di reato tra i bianchi ed i neri in favore dei primi), le condizioni di vita di migliaia di cittadini appartenenti alle cosiddette minoranze continuano ad essere difficili impedendo, nella maggior parte dei casi, la possibilità di un recupero di quei settori della società che risiedono nella zona grigia tra l'accettazione passiva della delinquenza e il tentativo, spesso ostruito dal contesto circostante, di riscatto sociale ed economico. Quello che sta accadendo a Ferguson pesa come macigni sulle spalle di Obama perché rappresenta il simbolo più evidente di quanto le politiche per l'integrazione annunciate nel corso degli anni siano rimaste sulla carta e che il potere, quello vero, non abbia cambiato colore o carta d'identità. Miglioramenti senza dubbio sono stati fatti, ma evidentemente la strada da percorrere per un reale cambiamento è ancora lunga e, purtroppo, sembra che dovrà passare per molte altre Ferguson.

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