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L’analisi – Il voto in Iraq: schede elettorali e sangue

Centinaia di morti in decine di attentati prima delle elezioni provinciali del 20 aprile scorso, con l’obiettivo di destabilizzare il Paese. Ecco chi c’è dietro e quali trame si dipanano sull’Iraq.
A cura di Enrico Campofreda
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Le percentuali di voto in 12 delle 18 province irachene chiamate in questi giorni alle urne dicono che circa il 50% dei cittadini aventi diritto ha risposto attivamente. Le statistiche sono inferiori alle politiche del 2010, ma col clima che si respira nel Paese e il rilancio della pratica dell’attentato destabilizzante (parecchie centinaia di vittime nelle settimane che hanno preceduto le consultazioni) gli osservatori più ottimisti non s’attendevano di più. Anche in queste ore la scia di sangue si sta allungando: le agenzie battono la notizia che nella zona di Kirkuk l’esercito ha attaccato una manifestazione dell’opposizione provocando un centinaio fra morti e feriti.

Gli eventi sanguinosi mostrano i due maggiori volti dell’Iraq che ha ripreso a combattersi. Da una parte riappaiono le deflagrazioni delle auto-bomba del jihadismo più oltranzista, nutrito dalla galassia qaedista e di altre componenti che attaccano lo strapotere del premier Al-Maliki; dall’altro c’è sempre lui col suo apparato della sicurezza contestato anche da oppositori lontani alla pratica militarista. Parliamo dello strapotere che il Capo del governo ha da tempo acquisito non solo col controllo di ciò che costituzionalmente gli compete tramite la guida delle Forze Armate, ma della direzione di strutture come la “Squadra antiterrorismo” e il servizio “Operazioni Baghdad” dove il premier ha inserito uomini di sua fiducia.

Molti analisti hanno sottolineato come il “modello libanese”, che la stessa Comunità internazionale aveva visto di buon grado per la gestione dell’Iraq post-Saddam e post-stragi Nato svelate da Wikileakes, con la maggioranza sciita accontentata da Al-Maliki al governo, i sunniti che ricevevano la presidenza del Parlamento con Al-Nujaifi, i kurdi rappresentati dal Capo di Stato Talabani, cominciava a scricchiolare già alcuni mesi dopo la scelta. Eppure il delicatissimo meccanismo è rimasto in piedi. Voci insistenti dicono anche attraverso contatti segreti fra le nemicissime diplomazie statunitensi e iraniane, interessate a sostenere quella soluzione pro domo propria.

Gli americani per attivare il piano di ritiro delle truppe di terra incentivando le basi aeree della guerra coi droni, stesso disegno ora in via d’attuazione in Afghanistan. L’Iran per consolidare le sue mire di egemonia regionale contro le pretese sunnite su Baghdad. In attesa delle politiche le attuali elezioni valutano gli umori di una popolazione ridotta a subire ogni gioco di potere. Per ora le accuse di brogli, ribadite anche da alcune Ong occidentali che monitoravano le operazioni di voto, sono ridimensionate dagli organismi Onu pronti ad accreditarne giustezza e regolarità. Per ora.

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