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Opinioni

Milano è un problema per l’Italia, ma la colpa non è di Milano

Secondo il ministro per il sud e la coesione territoriale Giuseppe Provenzano Milano non restituisce quasi nulla al resto del Paese. Lesa maestà? No, è la verità e non solo in Italia. Ma la colpa non è di Milano, ma del declino di una provincia uscita con le ossa rotte dal primo tempo della globalizzazione. E che potrebbe ritrovare se stessa, se solo avesse il coraggio di investire su intelligenze e talenti che, a oggi, solo Milano e le grandi città sono in grado di valorizzare.
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Tra Milano e l’Italia "si è scavato un fossato" a causa del quale "la centralità" della città "la sua importanza, la sua modernità, la sua capacità di essere protagonista delle relazioni e delle interconnessioni internazionali non restituisce quasi niente” al resto del Paese. Queste le parole del ministro per il sud e per la coesione territoriale Giuseppe Provenzano nel corso dell'evento “Metamorfosi” organizzato da Huffington Post che hanno fatto scoppiare l’ennesima polemica sull’alterità tra il capoluogo lombardo e il resto del Paese.

Storia vecchia, e nemmeno troppo milanese, a dire il vero. Tant’è che ne ha scritto pure il Guardian, storico quotidiano di sinistra del Regno Unito, in un articolo intitolato “Come le megacity europee stanno rubando la ricchezza del continente”, che non a caso parte proprio dal caso milanese per raccontare il fenomeno: “Milano ora si muove nella sua orbita – scrive Julian Coman -raccogliendo ricchi premi da un'economia centrata su finanza, tecnologia, design e innovazione. È diventata una città alla moda e ricca. Nel 2020, la città ospiterà il vertice sulla cultura delle città del mondo. Nel 2026 si terranno qui le Olimpiadi invernali, condivise con la città alpina di Cortina. Livelli senza precedenti di investimenti stranieri stanno guidando nuovi sviluppi in tutta la città. Nei prossimi 15 anni verranno intrapresi oltre 40 importanti progetti di costruzione per un valore di 21 miliardi di dollari. Il sindaco di sinistra, Giuseppe Sala, ha raccontato di un aumento del 50% del turismo basato sulla promozione dei beni culturali della città, dai dipinti di Leonardo da Vinci alle attrazioni del fiorente quartiere LGBT della città a Porta Venezia. L'anno prossimo si trasferirà a Milano qui la fiera internazionale del libro che si tiene tradizionalmente a Torino”.

Tutto bene, se tutto questo non andasse a discapito di un Paese che cresce meno di qualunque altro in Europa e che della crescita milanese, a quanto pare, non beneficia nemmeno un po’. Milano sta diventando il caso più eclatante in Europa delle cosiddette città superstar, così come le definisce il sociologo francese Christophe Guilluy, autore del saggio “La Francia periferica”, uno dei più acerrimi critici delle "cittadelle" del Ventunesimo secolo, "vetrine della felice globalizzazione”, prerogativa di un'élite del centro città, i cui bisogni quotidiani sono soddisfatti da un precariato a basso reddito, che vive alle periferie dell'espansione urbana.

"Le classi lavoratrici tradizionali non vivono più dove si creano buoni posti di lavoro e ricchezza", afferma Guilluy, e basta farsi un giro nel resto della Lombardia, dopo che sono partiti i treni carichi di pendolari delle sette di mattina, per accorgersi della desertificazione della provincia italiana, motore di crescita del Paese fino a pochi anni fa, ora ridotte a quartieri dormitorio della metropoli, per tutti quei lavoratori che nella metropoli non hanno i soldi per viverci. E se fino a ieri questo era un tema che si poneva per i comuni dell’hinterland, di quella che oggi definiamo città metropolitana, oggi l’idrovora Milano è un problema che riguarda tutto il nord Italia, se non addirittura tutto il Paese Se volete cercare motivazioni al rancore, alla nostalgia verso un passato che non tornerà, al bisogno di protezione dentro antichi simulacri come la Lira o lo Stato, in altre parole al consenso stellare di Matteo Salvini, cercatelo qua. È la vendetta di chi non conta più nulla, bellezza.

Forse, però, il problema non è Milano. Forse Milano è l’epifenomeno di un problema che riguarda tutto il resto dell’Italia non metropolitana, come racconta bene Paolo Manfredi nel suo recente pamphlet “Provincia, non periferia”, in cui racconta la fine del modello delle banche di territorio, delle fiere di territorio, delle università di territorio e dei distretti industriali, uscite con le ossa rotte dal primo tempo della globalizzazione: non è un caso che quelli che fino a ieri erano i distretti modello della Terza Italia delle virtù civiche e delle multinazionali tascabili, da Vicenza ad Arezzo, da Montebelluna a Siena, da Parma a Genova, a Bologna oggi sono teatro di scandali bancari, di clamorosi crac, avventurosi salvataggi, comuni con le casse vuote e scandali assortiti figli di un capitalismo relazionale, ieri celebrato, che oggi scopriamo improvvisamente amorale e “straccione”.

Non è così, non ovunque e non solo. Ma la riflessione deve partire da qui. Perché la rinnovata vitalità milanese è figlia, o comunque conseguente, alla crisi della provincia. E la sua crescita economica è solo un parziale succedaneo del declino dei sistemi produttivi territoriali, per i quali un tempo Milano era vetrina, mentre oggi ne è rappresentazione a prescindere: basti pensare, a titolo d’esempio, come il Salone del Mobile, che un tempo metteva in scena l’eccellenza dei distretti del legno arredo italiano sia oggi diventato in tutto il mondo il Fuorisalone, un vernissage di eventi ed aperitivi che potrebbe funzionare anche se l’Italia non avesse mezza impresa produttrice.

Nei giorni della crisi dell’Ilva, in questo senso, la riflessione acquista una sua rinnovata centralità: perché Milano, da sola, non è in grado né di assorbire il colpo della crisi della siderurgia italiana. E perché non è nemmeno in grado, da sola, di fare da porta d’ingresso per nuovi investimenti al di fuori della sua tangenziale.

Domanda: è colpa di Milano, tutto questo, o della sua autoreferenzialità? Oppure è colpa della crisi di una provincia che si aspetta che Milano, con la bacchetta magica del suo nuovo allure internazionale, sia in grado di risolvere i guai del resto dell’Italia, delle sue banche locali, dei distretti stanchi della sua manifattura?

Un consiglio: provi, il resto dell’Italia, a prendersi un po’ di quell’intelligenza terziaria che Milano produce, abbia il coraggio di riportarsela a casa e di darle le le poltrone a cui sono inchiodati i vecchi padri-padroni, accetti di farsi contaminare da nuovi saperi, nuove tecnologie, nuovi modi di concepire il vivere e il produrre. Alla peggio, si ritroverà ad averci provato invano. Che è meglio, ne converrete, che cercare capri espiatori tra le guglie della Madonnina.

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Francesco Cancellato è direttore responsabile del giornale online Fanpage.it e membro del board of directors dell'European Journalism Centre. Dal dicembre 2014 al settembre 2019 è stato direttore del quotidiano online Linkiesta.it. È autore di “Fattore G. Perché i tedeschi hanno ragione” (UBE, 2016), “Né sfruttati né bamboccioni. Risolvere la questione generazionale per salvare l’Italia” (Egea, 2018) e “Il Muro.15 storie dalla fine della guerra fredda” (Egea, 2019). Il suo ultimo libro è "Nel continente nero, la destra alla conquista dell'Europa" (Rizzoli, 2024).
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