Anche se vista dall’Italia la crescita resta una chimera statistica o al più una buona intenzione che tutti professano ma per raggiungere la quale nessuno o quasi fa nulla di concreto, secondo un’analisi degli strategist di Credit Suisse diffusa oggi dall’analisi dei quattro macro-temi che vanno consolidandosi che potranno avere un impatto significativo sull’andamento dei mercati nei prossimi mesi emerge la conferma di come il mondo stia riprendendo a correre e, per una volta, non solo in Asia. Gli esperti rossocrociati spiegano anzi che la crescita economica globale sta riaccelerando in particolare in Europa e in Giappone, dunque in aree tutt’altro che “emergenti”. Tralasciando le implicazioni operative in termini di investimento (riassumibili nel suggerimento di convogliare i vostri risparmi su strumenti azionari più che su obbligazioni o titoli di stato, visto che la riaccelerazione economica porterà a maggiori utili, che faranno crescere le quotazioni e i dividendi delle aziende migliori nei settori maggiormente “ciclici”, mentre l’inevitabile progressivo rialzo dei tassi d’interesse peserà sulle quotazioni dei bond), alcune considerazioni appaiono particolarmente interessanti.
Anzitutto, gli esperti ricordano come in una fase di riaccelerazione a trarre i maggiori benefici non siano i produttori beni di consumo ripetuto (i cosiddetti “consumer staple”), aziende come Gillette, Unilever o Procter and Gamble che operano in un settore considerato particolarmente “difensivo” ed i cui titoli azionari mostrano il comportamento più simile alle obbligazioni e tendono a reagire negativamente ad eventuali rialzi dei rendimenti di mercato (che è esattamente lo scenario che il Credit Suisse ha in mente), mentre l’esposizione elevata alla domanda proveniente dai mercati emergenti li rende meno interessanti in una fase in cui ci si attende, come ora, che la riaccelerazione economica a livello mondiale sia la somma di una ripresa in fase di consolidamento nei mercati sviluppati e di una crescita meno impetuosa nei mercati emergenti. E questo, tutto sommato, può essere un bene per l’economia italiana, che non ha grandi produttori di “staples” e che anche a livello di esportazioni tende a primeggiare più su mercati sviluppati come l’Europa, gli Usa e il Giappone che non (ancora) in Cina, India, Brasile o Russia.
Altra considerazione degna di nota, gli esperti svizzeri suggeriscono tatticamente di ridurre l’esposizione al mercato azionario americano perché a loro giudizio è un mercato “difensivo” grazie alla maggiore flessibilità a livello micro e macro economico che contraddistingue gli Stati Uniti e che dunque tende a correggere di meno nelle fasi di rallentamento ma anche a salire meno quando la crescita mondiale torna ad accelerare come ora si ritiene possibile. Per essere chiari gli analisti ricordano come durante l’ultima inversione di ciclo economico gli utili per azione di aziende statunitensi siano mediamente calati del 35% e poi risaliti dell’85%, mentre quelli giapponesi (il Giappone è un paese molto meno flessibile degli Usa) hanno perso inizialmente il 70% e sono poi triplicati. Guarda caso questo potrebbe, se la “cura fatale” della troika Ue-Bce-Fmi non ci indurrà a ridurre drasticamente l’uso di ammortizzatore sociale come si è provato a fare in Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna (con esiti alquanto dubbi, va ricordato non una ma due volte agli entusiasti “a prescindere” del “rigore” mitteleuropeo), consentire anche all’Italia di recuperare un poco di crescita nei prossimi trimestri.
Non che ci sia da attendersi nulla di trascendentale, ma iniziare a vedere sia pure minimi segni positivi nelle variazioni del Pil anziché un’ulteriore sequenza di cali frazionali può essere importante per non mandare completamente in frantumi quanto resta di questo disgraziato paese che un eccesso di immobilismo negli ultimi 20 anni ha condannato ad un rapporto debito/Pil chiaramente insostenibile sul lungo periodo, ma da “smontare con cura” se si vuole evitare il peggio. Anche perché, altra interessante considerazione che propone il Credit Suisse nella sua nota, negli Usa i margini reddituali delle aziende non finanziarie sono già ora significativamente più elevati dei loro livelli medi storici ed anzi si trovano sui massimi degli ultimi 50 anni e difficilmente potranno crescere ancora molto, mentre sono vulnerabili ad un eventuale recupero di potere contrattuale dei sindacati che porti ad un incremento del costo del lavoro e ad una conseguente perdita di competitività.
Guarda caso questa ipotesi, secondo molti altri analisti e operatori finanziari, riguarda da vicino anche la Germania, da molti considerata la “Cina d’Europa”, che nei prossimi anni potrebbe perdere competitività per qualche maggiore concessone salariale e questo fatto a sua volta gioca a favore delle aziende italiane, se sapranno proporre prodotti e servizi appetibili per il mercato tedesco (ed europeo in genere). Ovvio che sarebbe il caso di continuare a puntare su riforme a medio termine e utilizzare una parte della ritrovata futura (mini?) crescita per cercare di risolvere i problemi di fondo del Belpaese, ma intanto il mutato clima sui mercati finanziari e un quadro macro in miglioramento suggeriscono di non “cedere le armi” sia a livello macro (l’Italia resta una delle maggiori economie europee e deve cercare di recuperare quel potere politico che ha perso negli ultimi decenni, con conseguente danno anche per le nostre aziende) sia a livello micro (è veramente necessario veder passare di mano i nostri migliori marchi per assistere ad un rilancio degli stessi? Non sarebbe meglio trovare il modo di finanziarne il rilancio o assistere i futuri passaggi generazionali?).