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Opinioni

Il ctu è vincolato dalle prospettazioni delle parti

Cassazione 6.12.2019 n 31886 (a) il ctu non può indagare d’ufficio su fatti mai ritualmente allegati dalle parti; (b) il ctu non può acquisire di sua iniziativa la prova dei fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione, né acquisire dalle parti o da terzi documenti che forniscano quella prova; (d) i princìpi che precedono non sono derogabili; (e) la nullità della consulenza non è sanata dall’acquiescenza delle parti ed è rilevabile d’ufficio.
A cura di Paolo Giuliano
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È accaduto all’ospedale San Filippo Neri di Roma, l’incidente causato da un guasto all’impianto di azoto liquido per la crioconservazione dei materiali biologici. Infranto il sogno di circa 40 coppie: ora le istituzioni inviano ispettori.

Nomina del Ctu

Può capitare che nel corso del processo il giudice ha la necessità di farsi assistere da un tecnico munito di specifiche competenze onde poter acquisire dei dati o valutazioni che esulano dall'aspetto strettamente giuridico.

Poteri del Ctu

Una volta nominato il ctu, possono sorgere dei contrasti sui suoi poteri e compiti

Tesi delle indagini senza limiti ai poteri del ctu

Secondo un primo e più antico orientamento, l'art. 194 c.p.c. assegnerebbe al c.t.u. il potere di compiere ogni e qualsiasi indagine ritenga utile per l'esaustivo svolgimento del proprio incarico: e dunque il ctu ha il potere di accertare i fatti storici prospettati dalle parti, assumere di sua iniziativa informazioni ed esaminare documenti non prodotti in causa, anche senza l'espressa autorizzazione del giudice.

Questo orientamento ammette che il consulente possa utilizzare, per rispondere ai quesiti, anche elementi (compresi i documenti) acquisiti attraverso lo svolgimento di attività non autorizzate, all'unica condizione che esse concernano l'oggetto dell'accertamento demandatogli.

Tesi della distinzione tra ctu deducente e ctu percipiente

Un secondo orientamento ritiene che per stabilire quali siano i poteri di accertamento dei fatti concessi al c.t.u. occorra distinguere tra l'ipotesi in cui al consulente è demandato il compito di valutare i fatti già accertati dal giudice o incontroversi tra le parti (c.d. "consulenza deducente"), e quella in cui al consulente è demandato il compito di accertare determinate situazioni di fatto non ancora dimostrate in giudizio, e che è possibile accertare solo con l'ausilio di speciali cognizioni tecniche (c.d. "consulenza percipiente").

Nel primo caso l'incarico di consulenza presuppone l'avvenuta assunzione dei mezzi di prova, e ha per oggetto la valutazione di fatti i cui elementi sono già stati completamente dimostrati dalle parti. In tale ipotesi, pertanto, non sorgerebbe – secondo l'orientamento in esame – alcun problema di "limiti" alle indagini del consulente, il cui perimetro sarà costituito dalle prove già acquisite agli atti.

Nel secondo caso, invece (consulenza "percipiente"), il consulente non incontrerebbe alcun limite nell'accertamento dei fatti, ivi compresi quelli costitutivi della pretesa attorea.

Tesi dei limiti derivanti dalla prospettazione delle parti

Un terzo orientamento ritiene che il consulente non possa mai né indagare su questioni non prospettate dalle parti, perché violerebbe il principio che addossa loro l'onere di allegazione dei fatti, ed impedisce al giudice di indagare su questioni non prospettate dai litiganti; né accertare i fatti costitutivi della domanda o dell'eccezione, perché violerebbe il principio che addossa alle parti l'onere della prova (salva l'ipotesi della impossibilità assoluta ed oggettiva, per le parti, di provare quei fatti se non col ricorso alla consulenza tecnica).

Secondo questo orientamento, il consulente  può valutare scientificamente o tecnicamente i fatti già provati, oppure acquisire gli elementi (ad es. misurazioni, stime, analisi) necessari al riscontro di veridicità dei fatti documentati dalle parti, ma mai spingersi ad introdurre nel processo fatti nuovi, od a ricercare di sua iniziativa la prova dei fatti costitutivi della domanda o dell'eccezione, per come dedotti dalle parti.

Pertanto, anche nelle ipotesi di consulenza "percipiente", il c.t.u. potrà compiere indagini esplorative ed accertare di sua iniziativa fatti materiali solo in due casi:

a) quando si tratti di "fatti accessori e rientranti nell'ambito strettamente tecnico della consulenza", con esclusione quindi dei fatti costitutivi delle domande e delle eccezioni; b) oppure quando l'indagine officiosa del c.t.u. sia necessaria per riscontrare la veridicità dei fatti allegati dalle parti e l'attendibilità dei mezzi di prova da esse offerti.

Deve, invece, escludersi – secondo l'orientamento in esame – che il consulente possa acquisire documenti mai ritualmente prodotti in causa, dato che in tale ipotesi non si tratta di utilizzare dei semplici elementi di fatto, ma di valutare una prova documentale, la quale può essere utilizzata in giudizio solo nel caso in cui il giudice, su espressa richiesta delle parti, ne abbia ordinato l'esibizione ai sensi dell'art. 210 c.p.c.

Corollario di questa impostazione è che l'accertamento dei fatti costitutivi delle domande o delle eccezioni resta sempre compito del giudice, e mai del consulente. Le valutazioni conclusive di quest'ultimo, pertanto, debbono sempre intendersi soggette alla regola del "rebus sic stantibus": e cioè valide a condizione che anche il giudice, valutato il materiale probatorio utilizzato dal c.t.u., ritenga condivisibile la ricostruzione dei fatti come compiuta da quest'ultimo, e la faccia propria.

Applicabile la tesi secondo la quale i poteri del ctu sono legati alla prospettazione delle parti

La giurisprudenza  ritiene  preferibile il terzo orientamento.

Dal punto di vista costituzionale, il terzo orientamento è preferibile perché è l'unicoche è coerente coi princìpi di parità delle parti di fronte al giudice e di ragionevole durata del processo.

E' infatti evidente, da un lato, che attribuire al c.t.u. poteri istruttori officiosi altera la parità delle parti; e dall'altro che l'attribuzione al c.t.u. del potere di compiere un'istruttoria "parallela" rimessa alla sua iniziativa costringe le parti a confrontarsi con fonti di prova acquisite dopo il maturare delle preclusioni istruttorie, rispetto alle quali non potrebbe negarsi loro il diritto alla controprova, con conseguente allungamento dei tempi del processo.

1.4.1. Il terzo degli orientamenti sopra riassunti (al § 1.3.3) appare, in secondo luogo, preferibile dal punto di vista dell'interpretazione sistematica.

I poteri del consulente tecnico d'ufficio sono infatti fissati dall'art. 194 c.p.c.. Tale norma stabilisce che il consulente tecnico:

a) assiste alle udienze, se vi è invitato dal giudice; b) "compie le indagini" che gli sono commesse dal giudice; c) se autorizzato dal giudice, può domandare chiarimenti alle parti, ‘assumere informazioni" da terzi, eseguire piante, calchi e rilievi.

Tale norma non può intendersi alla lettera, né essere letta isolatamente, perché condurrebbe ad esiti paradossali. Le espressioni "indagini commesse dal giudice", "chiarimenti richiesti alle parti", e "informazioni assunte da terzi" sono, infatti, così sconfinate, da potere teoricamente estendersi a ricomprendere persino il compimento di veri e propri atti istruttori, quali l'interrogatorio delle parti o di testimoni.

L'art. 194 c.p.c. va dunque letto in connessione da un lato con le norme che disciplinano i poteri delle parti ed il principio dispositivo (artt. 112 e 115 c.p.c.); dall'altro con le norme che disciplinano l'istruttoria e l'assunzione dei mezzi di prova da parte del giudice (artt. 202 e ss. c.p.c.).

E poiché tali norme fissano il fondamentale principio ne procedat iudex ex officio, neque ultra petita partium, deve concludersi che le attività consentite al consulente dall'art. 194 c.p.c. incontrano due limiti insormontabili:

a) il primo limite è il divieto di indagare su questioni che non siano state prospettate dalle parti nei rispettivi scritti difensivi ed entro i termini preclusivi dettati dal codice, altrimenti il consulente allargherebbe di sua iniziativa il thema decidendum; b) il secondo limite è il divieto di compiere atti istruttori ormai preclusi alle parti (come acquisire documenti dopo lo spirare del termine di cui all'art. 183, comma sesto, c.p.c.); oppure riservati al giudice (come ordinare esibizioni od ispezioni, interrogare testimoni).

L'art. 194 c.p.c. deve dunque essere interpretato nel senso che:

-) le indagini che il giudice può "commettere" a c.t.u. sono soltanto quelle aventi ad oggetto la valutazione (nel caso di consulenza deducente) o l'accertamento (nel caso di consulenza percipiente) dei fatti materiali dedotti dalle parti, e non altri;

l'affidamento per contro al c.t.u. di quesiti concernenti fatti mai dedotti dalle parti o, peggio, di valutazioni giuridiche, sarebbe quesito nullo dal punto di vista processuale e, nel secondo caso, fonte sinanche dì responsabilità disciplinare per il magistrato;

-) i "chiarimenti" che il consulente può richiedere alle parti sono soltanto quelli idonei ad illuminare passi oscuri od ambigui dei rispettivi atti, e non possono comportare l'introduzione nel giudizio di nuovi temi di indagine;

-) le "informazioni" che il consulente può domandare a terzi non possono trasformarsi in prove testimoniali, né avere ad oggetto documenti che era onere delle parti depositare.

Debbono dunque affermarsi, in conclusione di quanto sin qui esposto, i seguenti princìpi di diritto:

(a) il c.t.u. non può indagare d'ufficio su fatti mai ritualmente allegati dalle parti;

(b) il c.t.0 non può acquisire di sua iniziativa la prova dei fatti costitutivi della domanda o dell'eccezione, né acquisire dalle parti o da terzi documenti che forniscano quella prova; a tale principio può derogarsi soltanto quando la prova del fatto costitutivo della domanda o dell'eccezione non possa oggettivamente essere fornita coi mezzi di prova tradizionali;

(c) il c.t.u. può acquisire dai terzi soltanto la prova di fatti tecnici accessori e secondari, oppure elementi di riscontro della veridicità delle prove già prodotte dalle parti;

(d) i princìpi che precedono non sono derogabili per ordine del giudice, né per acquiescenza delle parti;

(e) la nullità della consulenza, derivante dall'avere il c.t.u. violato il principio dispositivo o le regole sulle acquisizioni documentali, non è sanata dall'acquiescenza delle parti ed è rilevabile d'ufficio.

Cass., civ. sez. III, del 6 dicembre 2019, n. 31886

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Avvocato, Foro di Napoli, specializzazione Sspl conseguita presso l'Università “Federico II”; Mediatore professionista; Autore di numerose pubblicazioni in materia di diritti reali, obbligazioni, contratti, successioni. E' possibile contattarlo scrivendo a diritto@fanpage.it.
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