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Vent’anni fa scompariva Giorgio Gaber, ma il Signor G è ancora qui che parla di noi

Il Signor G, scompariva il primo Gennaio del 2003: nonostante siano passati 20 anni le sue parole continuano a parlarci di noi come fossero state scritte ieri. E non era solo un grande artista ma anche una meravigliosa persona di cui avremmo ancora bisogno.
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Giorgio Gaber (girella/lapresse)
Giorgio Gaber (girella/lapresse)

La scomparsa di Giorgio Gaber è legata per me a un ricordo molto personale: era il primo Gennaio del 2003, esattamente venti anni fa, ero poco più che ventenne e di lì a pochi giorni avrei cominciato a lavorare con il mio maestro che poi era stato anche un mito della mia adolescenza ovvero Paolo Rossi. Ero stato da poco espulso dalla Civica Scuola d’arte drammatica Paolo Grassi di Milano (ma questa è un’altra storia) e come mi aveva promesso alcuni mesi prima durante uno stage in cui lo avevo conosciuto "se ti cacciano come hanno cacciato me, ti porto in tournée!". E così ha fatto.

Quella mattina lo chiamo per fargli gli auguri e per ringraziarlo ancora di quel meraviglioso dono di Natale che mi aveva fatto, chiamandomi pochi giorni prima della vigilia e proponendomi di lavorare con lui, ma la sua voce, al contrario di sempre, era cupa, silenziosa, rotta. Gli chiedo cosa fosse successo e mi risponde che aveva appena saputo che Giorgio Gaber non c’era più, il suo maestro. Apprendo così quella notizia che di lì a poco poi sarebbe stata ripresa da tutti gli organi di stampa: il Signor G era scomparso. Mi resi conto che avrei avuto l'immensa fortuna di lavorare, imparare, divenire amico e chiamare affettuosamente maestro, uno dei più grandi comici e artisti italiani che, a suo tempo, aveva avuto la medesima fortuna con il suo di Maestro, Giorgio Gaber. E questo, permettetemi di dirlo, mi riempie doppiamente di orgoglio.

Giorgo Gaber, al secolo Giorgio Gaberščik, nato a Milano il 25 gennario del 1939 è stato, senza alcun dubbio, uno dei più grandi artisti in assoluto del secolo scorso: sono pochi, come lui, ad aver tracciato il solco, aver creato un genere, aver attraversato tempi, mode e stagioni ed essere stato in grado di cambiare pur tuttavia restando fedeli a se stessi: sono stati pochissimi – e fra tutti mi viene il nome di P.P.Pasolini – gli intellettuali capaci di leggere, commentare e raccontare i tempi in cui vivevano riuscendo a prevedere – quasi da sembrare veggenti – quale futuro ci aspettava ma senza mai diventare banali, retorici o melodrammatici.

È questa la grandezza che ha reso assolutamente unico Gaber: ancora oggi a vent’anni dalla sua scomparsa, i suoi testi, le sue canzoni, i suoi monologhi risuonano attuali e feroci seppure siano stati scritti per il pubblico di un’Italia di venti, trenta o addirittura quaranta anni fa. Alcune delle sue espressioni, delle sue frasi, dei suoi pensieri sono entrati nel gergo comune tanto da non appartenere più direttamente a lui, come alcune volte accade per artisti che riescono a travalicare il tempo e lo spazio di appartenenza e di cui ci ritroviamo a citare le opere senza nemmeno saperlo: “io non mi sento italiano ma per fortuna o purtroppo lo sono.”

Il suo intero canzoniere attraversa tutta la storia del paese dal dopo-guerra al duemila (diviso in sei periodi, a seconda della casa discografica per la quale lavorava, dal 1958 al 2003). E ascoltandolo sembra di sentire la voce della storia del paese attraverso le età di un uomo: dagli inizi giovanili con il rocchenroll e l’amico di sempre, Adriano Celentano, passando per il periodo più leggero durato fino al 1969, arrivando poi all’impegno politico che lo allontanerà suo malgrado dalla televisione – come altri mostri sacri con lui, Dario Fo o Enzo Jannacci (con il quale scriverà una pagina della storia del teatro italiano grazie alla loro versione di Aspettando Godot con un giovane, ma non così tanto, Paolo Rossi appunto) –, e l’invenzione tutta sua (e di Sandro Luporini, amico e instancabile co-autore) del TeatroCanzone, in grado di unire musica, canzoni, monologhi, satira, racconti, dramma, comicità, poesia, riflessione, intrattenimento, come pochi sono riusciti a fare dopo di lui (loro).

E come nelle migliori favole è bello poter dire che non era solo un grande artista ma anche una persona meravigliosa: ho avuto la fortuna di ascoltare dei meravigliosi racconti sul maestro da Paolo Dal Bon, l’attuale presidente della Fondazione Gaber, nonché suo grande amico e già suo tour manager ai tempi delle grandi tournée che partivano a ottobre e finivano a settembre con qualche piccola pausa estiva e via così di anno in anno, con più di venti recite al mese, arrivando a toccare anche i paesini più piccoli della sperduta provincia italiana. In uno dei suoi tanti racconti Dal Bon diceva che Gaber, tornando ogni due o tre anni nelle stesse piazze, dopo la fine dello spettacolo aveva la consuetudine di restare in camerino per accogliere chiunque volesse salutarlo e così accadeva che si ricordava nomi e storie di fan che lo seguivano da anni e che salutava come amici.

Nel 1979 – in anni in cui era contestato ferocemente sia dalla destra che dalla sinistra per la sua natura libertaria e anarchica che gli permetteva di scagliarsi contro chiunque – una tarda notte rientrando a Milano dopo una data in provincia, passa in auto davanti al Teatro Lirico (ora Teatro Lirico GiorgioGaber) dove avrebbe recitato l’indomani e vede due ragazzi molto giovani, in attesa davanti alle porte per poter essere i primi ad acquistare i biglietti per lo spettacolo della sera dopo (non esistevano prevendite on line negli anni ’70). Si ferma, si accosta, loro emozionatissimi lo salutano, e gli chiede cosa facessero lì alle 3 di notte. Dopo la loro risposta, li invita a salire in auto, vanno a mangiare qualcosa e passa con loro il resto della notte sino al mattino, dicendo di non preoccuparsi per i biglietti, un posto per loro ci sarebbe stato di sicuro.

Questo era Giorgio Gaber: "Quante risate che si fanno quando si ride!". Un artista di cui spesso viene da chiedersi: "Chissà cosa direbbe adesso dei tempi che stiamo vivendo?". È difficile rispondere perché il mondo è cambiato completamente e in modo inimmaginabile dopo la sua scomparsa, ma nonostante questo le sue parole continuano a parlarci di noi come fossero state scritte ieri.

La parola io
È uno strano grido
Che nasconde invano
La paura di non essere nessuno
Questo dolce monosillabo innocente
È fatale che diventi dilagante
Nella logica del mondo occidentale
Forse è l'ultimo peccato originale

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