Perché non riusciamo a toglierci dalla testa Pronto come va dei The Kolors

In uno dei primissimi episodi di questa rubrica, due anni fa, parlavo di Italodisco dei The Kolors come una canzone che avvera la legge dei tormentoni secondo la definizione del musicologo francese Peter Szendy: come una profezia autoavverante, un tormentone che parla di sé stesso, del tormento che provoca, e in questo corto-circuito autoreferenziale finisce per insediarsi in modo subliminale nelle nostre coscienze di ascoltatori distratti. Parlando di Sinceramente di Annalisa, qualche mese dopo, mi sono ritrovato in obbligo di aggiungere una nuova categoria a questa catalogazione: il tormentone citazionista, che fa interagire chimicamente l’autoreferenzialità di cui sopra con la menzione necromantica di una lunga tradizione di canzoni di grande successo, come per fare appello mistico alla loro memorabilità per sgraffignare un po’ di magia. Con il loro ultimo singolo, Pronto come va, il gruppo napoletano ha fatto un passo ulteriore in questa escalation: un tormentone al cubo, che scalando nelle dimensioni arriva pericolosamente vicino alla radice di un problema che potrebbe mettere in crisi la sua stessa esistenza.
Che Pronto come va sia una canzone costellata di citazioni e allusioni non ci vuole molto a notarlo. Prima della fine della prima strofa riconosciamo facilmente tutti una comparsata di Pedro di Raffaella Carrà, che peraltro nell’ultimo paio di anni è tornata prepotentemente e globalmente attuale con una serie ciclica di ripescaggi su TikTok. Si potrebbe discutere, in realtà, se la “zia Mara” menzionata nel primo verso sia già la comparsa di un tormentone – televisivo anziché musicale, cioè il modo affettuoso in cui ci si riferisce a Mara Venier – ma è difficile fare obiettare sul secondo tormentone citato: “Blue Da Ba Dee Da”, come recita il refrain della più celebre canzone degli Eiffel 65. Come nel caso di Pedro, ci troviamo davanti a un successo che supera ampiamente i confini italiani, e come la canzone dei Ricchi e Poveri che comparirà nella seconda strofa con una ingegnosa inversione (“sarà perché ti amo, che confusione”) siamo di fronte a dei classici che la cultura digitale dell’eterno revival non smette di scoprire ciclicamente – due anni fa ebbe un gran ritorno in Europa centrale.
Sbrogliare queste citazioni è solo parte dell’esercizio che il nostro cervello compie sullo sfondo, mentre la musica prova a insinuarsi e convincerci di essere all’altezza di questi illustri precedenti. Mentre le orecchie registrano “Non mi puoi lasciare il cielo in una stanza”, “Un sabato italiano” e “Come i Pink Floyd vorrei tu fossi qui”, e incamerano l’associazione lirica alle omonimi strafamose canzoni, un’altra parte del nostro centro di elaborazione sonoro processa il particolare incastro di basso e melodia cantata elaborando il paragone automatico con i precedenti successi dei Kolors: sotto, un giro scivoloso e glaciale che richiama il dinamismo di Un ragazzo una ragazza; sopra, un intreccio di note che sembra cominciare “in medias res”, da una nota alta e con una scansione ritmica sincopata che prende a stilettate il quattro quarti della batteria, proprio come in Italodisco.
Come si è detto tante volte, alla base di un successo (nel senso del funzionamento di una canzone, non necessariamente della sua buona riuscita commerciale) sta l’equilibrio misterioso e imperscrutabile tra novità e familiarità. Qui, Stash e compagni puntano molto più decisamente sulla riconoscibilità del materiale di partenza, ma non per pigrizia. E quindi, prima di provare a spiegare questa trama di ricordi, guardiamo come la traccia prova ad agganciarsi alle orecchie con le proprie forze. E per questo dobbiamo indagare il passaggio cruciale dalla strofa al ritornello.
Dopo aver intrecciato tre-quattro ritmi differenti nei versi della strofa – voce, basso e batteria, con alcuni contributi di chitarra – assemblando una concatenazione di stimoli sonori che è purissimo funk, arriva la sezione intermedia che potremo chiamare bridge e che impone una prima pausa. Dopo il “Pedro” che sembra inceppato, la canzone cambia ritmo armonico: siamo nella stessa tonalità, ma gli accordi ora si scambiano con più calma, come se tutto fosse stato rallentato a 0,50x e Stash ci volesse presentare finalmente i termini della questione: “è colpa mia, è colpa tua, non è importante”, richiama l’intreccio di responsabilità amorose di Un ragazzo una ragazza, ma forse ci sta anticipando un primo svelamento della canzone, cioè che sta parlando dell’innamoramento verso una canzone. Ci torneremo.
Un conto (“due, tre qua-”) prepara l’ascoltatore al lancio di qualcosa di grosso: inserito astutamente nel flusso logico, sintattico e tematico delle liriche anziché all’inizio del brano (come in qualsiasi canzone dei Ramones e in qualche vecchio classico minore dei Beatles), questo conto ci avvisa che non è ancora finita e lo fa dentro la finzione narrativa-musicale del brano, un po’ alla maniera del personaggio di una famosa canzone degli Offspring, Pretty Fly. Anziché dettare i quattro quarti con un campanaccio alla maniera di Italodisco, qui Alex Fiordispino batte l’uno, il tre e il quattro con un colpo di cassa, uno sul bordo del rullante e un trillo di triangolo.
Come dicevamo parlando di Tu con chi fai l’amore, quest’ultimo tocco potrebbe essere solo un esempio di “ear candy”, suonato per tenere accesa la nostra attenzione. Ma il suo posto in questo tipo di canzone non è stilisticamente fuori luogo: come il campanaccio (famoso anche per lo sketch musicale più divertente della storia di Saturday Night Live), anche il triangolo ha un ruolo importante nell’economia del funk, forse il genere musicale che più di ogni altro ha espanso le possibilità e la palette timbrica della batteria. Qui la sua funzione è davvero pratica: come il trillo di un microonde che ha finito di scaldare qualcosa, così il singolo tintinnio ci prepara a un pre-ritornello al quale bisogna prestare ascolto. Il movimento dell’inciso è molto particolare, interamente costruito su quattro gradini della scala di Si minore, in cui voce e basso solcano la stessa strada: dopo aver messo in luce la batteria, la canzone fa un veloce passaggio dall’altro strumento della sezione ritmica, portando a tre le diverse identità ritmiche del brano (e non abbiamo ancora finito). Da una parte, abbiamo una concatenazione di momenti che mettono in rilievo le diverse componenti del gruppo, dai filler della batteria ai motivi disegnati dal basso; dall’altra, l’ascoltatore è intrattenuto in ogni momento, quasi ci fosse paura di perderlo per strada, in maniera magari perfino eccessiva – ma non sono stati i Kolors a diminuire l’attention-span degli esseri umani…
Il ritornello, dove arriva una quarta identità ritmico-melodica e un inciso decisamente memorabile, aggiunge ulteriore legna a questo rogo. Il passaggio davvero notevole, qui, sta nella transizione senza cuciture al post-ritornello, dove dall’incedere saltellante di appena due battute prima, sottolineato dalla chitarra in levare, si riscende alla cassa dritta del pre- ritornello. Che sembra identico, ma non lo è, e che finalmente ci dipana il senso della canzone: se fai caso all’accompagnamento, infatti, qui la melodia sembra “grattare” e andare in dissonanza con quello che la circonda. Puoi sentirlo intorno a “dee da”, a “tutta la vita”, e infine alla parola-chiave, “nostalgia”. Nostalgia di cosa? “Di quello che mi facevi tu”. Cioè, se posso permettermi un’interpretazione, della sensazione che dava la musica quando non era così ubiqua e impertinente, l’ennesima portata troppo abbondante di un content che ci viene forzato giù per la gola con l’imbuto.
Come le note di quest’ultima parte della canzone confliggono tra loro e ci fanno sentire una tensione, così c’è uno strappo che non si può colmare tra la nostra esperienza della musica “di una volta”, un’esperienza completamente personale e intima (come una telefonata), con l’esperienza collettiva, condivisa, indubitabile della nostra umana ricerca di divertimento nella musica. Prendiamo dal videoclip, che dichiaratamente omaggia Sugar dei Maroon 5, per spiegare questa strana situazione con un esempio pratico.
Anche nelle feste di matrimonio grosso modo si finisce per ascoltare canzoni già sentite un milione di volte (ci siamo passati tutti, prima o poi, da protagonisti o da spettatori), ma il punto del divertimento di questi dj-set talvolta formulari, sicuramente non incentrati alla scoperta, non è neppure nel riconoscimento della canzone nota e basta: è nell’illusione che per una volta si possa riascoltare quel vecchio successo con orecchie fresche, eppure consapevoli. In quel momento, la canzone esercita in purezza tutte le sue funzioni: innesco di una memoria, certo, ma anche iniezione di dopamina tramite le orecchie.
Pronto come va sogna di recuperare quell’euforia. La “compilation d’amore” che promette disseminando nel testo le sue spie linguistiche citazioniste e con l’evocazione di momenti musicali fortunati nella carriera dei Kolors, non vuole essere solo il ricordo di tempi che non torneranno più, non è il memento malinconico di una musica che non potrà mai causare l’ebrezza della prima volta. Va intesa, semmai, come una formula magica, l’abracadabra (bluedabadeeda) che si spera ci riporti in contatto con la versione meno cinica di noi, ascoltatori pronti a meravigliarsi piuttosto che a stufarsi delle solite soluzioni, che usino la nostalgia per tornare a vivere il presente in un modo ricco e vivo, che non prestino troppa attenzione ai numeri e non si interessino del flop o meno di una canzone, di un concerto, ma si godano la musica e basta. Certo, non è facile, e come abbiamo visto ne stiamo pagando le conseguenze in un senso di stanchezza per il nostro tempo. Forse è troppo da chiedere a una canzone. Forse quella versione di noi non è mai esistita. Ma almeno bisogna provarci.