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Perché non riusciamo a toglierci dalla testa Un ragazzo, una ragazza dei Kolors

A oltre un mese da Sanremo “Un ragazzo, una ragazza” dei The Kolors è prima in radio. Ecco perché piace così tanto.
A cura di Federico Pucci
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Il funk, di per sé, non sembrerebbe il genere più adatto per sfondare in un mondo che ascolta la musica nell’intimità dei propri earpods. Il funk richiede feedback, possibilmente visivi e tattili: è tanto più efficace, quanto più crea un rapporto biunivoco (forse nel sistema nervoso simpatico?) tra il movimento delle sue infinite parti e quello del nostro corpo. Eppure, a più di un mese dalla fine del Festival di Sanremo la persistenza di un pezzo parecchio funk come Un ragazzo, una ragazza invita a chiedersi cos’abbia reso così appiccicosa la canzone dei Kolors.

La risposta, come sempre, sta nella scrittura. Il brano (che porta la firma di Stash e Alex Fiordispino, oltre all’ubiquo Davide Petrella e Francesco Catitti) parte con l’hook principale, come si richiede a qualsiasi canzone che aspira ad agganciarsi al cervello dell’ascoltatore secondo le regole del pop: l’inciso del ritornello arriva di botto e senza preavviso, accompagnato dagli schiocchi di dita che tengono il tempo, sì, ma contribuiscono anche a un senso di attesa che non verrà ripagato per almeno un minuto. Con questa dichiarazione d’intenti iniziale, Un ragazzo, una ragazza mette in chiaro il suo duplice obiettivo: far muovere i piedi ma anche far cantare in coro il ritornello.

Quando arriva la strofa, però, siamo in pieno territorio funk: l’accento sull’uno, di cui abbiamo parlato in riferimento ad Ariana Grande, crea una serie di possibilità per completare il groove, ad esempio con i colpi staccati di chitarra che, in termini di timbro, Stash ha spiegato di aver modellato su Prince e INXS. Quando si parla di groove si intende proprio il modo in cui si sceglie di riempire gli spazi liberi, cioè non occupati dall’ossatura ritmica che – come per tutti i generi da ballo, dal valzer alla polka – deve avere la priorità. Perciò, i brani di questo genere tendono a dedicare molta attenzione alla sovrapposizione e giustapposizione di elementi strumentali, e riservare invece un ruolo minimo alle melodie. E questo si sente specialmente nelle strofe, che hanno un compito più importante: insegnarci il ritmo. Così, dal proto-funk di Papa’s Got a Brand New Bag al rock plasticoso di New Sensation degli INXS, dall’epopea disco di September degli Earth Wind and Fire al sound edonista di Super Freak di Rick James, le strofe cantate del funk sfiorano quasi il minimalismo per quanto poco spazio occupano nella battuta, rispetto ad altri generi. E questo è anche il caso di Un ragazzo, una ragazza.

Qualcuno ha considerato la strofa dei Kolors troppo simile a quella di Salirò di Daniele Silvestri. Tanto che, in un’intervista a Rockol, Stash e compagni hanno dovuto esplicitamente citare quella canzone e spiegare di aver ricevuto una “benedizione” dal cantautore romano. Eppure, la somiglianza sembra discendere semmai dalla condivisione di un lessico ritmico-melodico comune, un lessico formatosi appunto intorno alla scarsità di spazi riservati al canto: già l’inciso strumentale di sax in un classico come Low Rider degli War, tanto per fare un esempio, disegnava frasi abbastanza simili a quelle di entrambe le canzoni italiane.

In ogni caso, il ruolo da protagonista nella strofa non appartiene certo alla frase cantata da Stash, ma a chi sta dando il maggiore contributo al groove. Mi riferisco al basso synth, che fa praticamente tutto da solo: indica i sottoinsiemi metrici per indirizzare i movimenti di chi intende ballare; dispiega la struttura armonica della canzone; crea accenti e (di nuovo) spazi vuoti per liberare l’immaginazione dell’ascoltatore. Ed è grazie a questo lavoro incessante del basso che, quasi senza che ce ne accorgiamo, arriviamo a un cambio di passo e direzione della melodia (“Lo sai che quando pensi di star bene…”).

Questo switch anticipa il pre-chorus, preparandoci al drop: tecniche da composizione dance, come abbiamo visto parlando di Geolier. Ma non solo: sono i primi versi che inquadrano la scena dell’incontro tra la ragazza e il ragazzo in una cornice romantica ed esistenziale, quasi uno sguardo dall’alto che invita alla riflessione. Per questo serve qualcosa di più: un apporto melodico intenso e un ritmo che va a spezzare il groove andando quasi in controtempo. Non stupisce che in questo momento arrivi la “rottura della quarta parete”, in cui Stash dichiara l’impossibilità di racchiudere tutta una storia d’amore dentro “una strofa da otto”: è un’ammissione di impotenza lirica che sa di autoironia, dal momento che stiamo proprio per sentire il succo della faccenda, riassunto in due versi poco dopo. Si tratta di uno sguardo laterale sulla storia che non appartiene di norma allo storytelling funk: che si tratti della narrazione (sociale) in terza persona di Living For The City o di quella in prima persona e vibrante di Rocksteady, il funk punta sull’empatia viscerale. Ma questa non basta al pop: serve la sorpresa, il guizzo che infrange la normalità (e ci fa aspirare a un suo ritorno).

Un ragazzo, una ragazza prova ad avere tutto quanto: lo zoom strettissimo sulla scena, che Stash ha spiegato in più interviste di aver visto accadere davanti ai suoi occhi nei pressi della Stazione Centrale di Milano; il groove ipnotico che ci rende partecipi fisicamente di questo corteggiamento; il senso di rottura dell’ordine causato da un colpo di fulmine; l’ansia di non sapere se questo incontro si ripeterà; ma anche i commenti “a margine” del narratore. Forse anche questa canzone risponde al criterio di autoreferenzialità tipico dei tormentoni, e magari il successo attuale (il primo posto nelle rotazioni radiofoniche, al momento, per esempio) dipende anche dalla profezia autoavverante per cui le canzoni che parlano di sé stesse funzionano sempre. Senz’altro chi ascolta percepisce istintivamente un’aspirazione alla sintesi, che culmina nel ritornello dove tutto è portato all’estrema conseguenza: il rigore ritmico del funk si è tradotto nel suo erede ancora più ossessivo e marziale, la cassa in quarti dritta, inevitabile della dance (e dell’italo disco, ovviamente); la scena è insieme ripresa da vicino e ponderata da lontano, una storia ridotta ai suoi minimi termini che la fa sembrare un cliché ma anche una formula magica potentissima. E mentre ci interroghiamo se siamo spettatori o protagonisti (vicari) della vicenda, la canzone ormai si è impossessata della nostra attenzione.

Un ragazzo, una ragazza funziona perché mette in discussione esplicitamente le formule musicali e narrative dei generi che contamina, e ciononostante le usa tutte quante, con una certa perizia. “Boy meets girl, boy loses girl, boy meets girl again, boy loses girl again” era la sinossi che, con ironia sardonica, Alfred Hitchcock aveva attribuito al suo film La donna che visse due volte (Vertigo). Eppure, anche seguendo fedelmente uno schema hollywoodiano trito e ritrito, il film rifletteva criticamente sul senso dell’incontro e della perdita, e in ultimo sul libero arbitrio. Magari Stash non ha intenzione di riformare dal profondo le convenzioni liriche e sonore del presente o i cliché delle canzoni d’amore, ma certamente sa che per farsi notare bisogna conoscere le regole e all’occorrenza infrangerle: un pezzo pop incontra un pezzo funk, vedrai non finirà.

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