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Perché non riusciamo a toglierci dalla testa yes, and? di Ariana Grande

Ariana Grande è tornata col nuovo singolo “yes, and?”: vi spieghiamo come è stata costruita e perché vale la pena ascoltarla.
A cura di Federico Pucci
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Ariana Grande, foto di Comunicato Stampa
Ariana Grande, foto di Comunicato Stampa

Più di una volta, in questa rubrica, mi è capitato di sottolineare come le canzoni “in minore” non siano da considerare per forza canzoni “tristi”. Prima di tutto perché non esiste una musica triste o allegra di per sé: è l’abitudine di chi la suona e chi la ascolta a determinare in quale contesto (sociale o emotivo) sia più appropriato questo o quest’altro modo di fare musica. E il pop, da molti anni ormai, è il reame del minore, senza per questo essere diventato più triste. Esiste, poi, un tipo di scala minore che, se dovessimo basarci solo sugli ultimi 70 anni di rock, pop e jazz, potremmo associare all’eccitazione. Ma, anche in questo caso, definirla così sarebbe solo metà della storia. Per cogliere le due parti di questo insieme di note e accordi che i teorici chiamano modo dorico, fortunatamente per noi, è appena uscita una canzone che ne fa uso in modo molto intelligente e che potresti aver già ascoltato: yes, and? di Ariana Grande.

Per presentare questo singolo, che lancia il nuovo album, l’artista americana ha pubblicato un video che cita in modo evidente Cold Hearted di Paula Abdul, del 1988. L’atmosfera della canzone rimanda a quegli anni in cui il pop americano si stava lasciando contaminare profondamente dalla prima ondata dell’hip hop di New York e dalla dance nata dalle ceneri della disco music. Era l’epoca di Rhythm Nation di Janet Jackson, ma anche di Buffalo Stance di Neneh Cherry dall’altra parte dell’Oceano, un laboratorio per il pop del decennio successivo. Una canzone in particolare portò gli elementi della deep house nel mainstream: Vogue di Madonna (1990), con la sua inconfondibile base ritmica suonata interamente sulla drum machine Roland TR-909, lo strumento che segnava il tempo nei club di Chicago e oltre. Il medesimo pattern ritmico di Vogue si può ascoltare dentro yes, and?, che a questo punto omaggia non una ma due leggendarie popstar americane. E non è un omaggio casuale.

La particolarità di quel beat, che pure colpisce la cassa ogni quarto (la cosiddetta “cassa dritta”) è il grande lasciato al primo battito, che rispetto al resto del pattern ha tempo per “respirare”. Pur nella gabbia della cassa dritta, pur nelle costrizioni di una batteria programmata, la house ha dato enfasi alla prima casella della griglia ritmica, portando avanti con nuovi strumenti la lezione del funk. James Brown – è noto – esigeva che i suoi musicisti rispettassero come una religione questo punto del beat: “the one”. Caricare di tensione ritmica la prima parte della battuta, infatti, consente agli strumenti, alla voce e al pubblico di riempire liberamente il resto della battuta con colpi, melodie, movimenti del corpo che creano infinite varianti di sincopi, e disegnando così quello che si definisce groove. “Let your body groove to the music”, diceva del resto Madonna, che rifacendosi alla lezione delle ballroominvitava i suoi ascoltatori a liberarsi dal giudizio altrui e sentirsi liberi nel proprio spirito e corpo.

Anche Ariana Grande attinge a questo sentimento, prima di tutto per ragioni personali. Posta sotto i riflettori per le sue relazioni, il suo aspetto, le sue scelte di carriera e di vita, l’artista esprime prima di tutto il diritto di fare come le pare, e quindi si fa portavoce della libertà di ciascuno. Lo fa con una musica che esprime questo messaggio fin dal primo battito, appunto: il funk, nella versione evoluta nella house. Il ritornello di yes, and? mette in pratica la lezione ritmica del funk con una melodia che casca sempre sul primo battito di ogni battuta. Nello spazio vuoto che separa “yes” e “and?” non c’è nulla, e forse non è un caso: “ognuno pensi quello che vuole”, canta ribadendo la stessa nota (un Fa, per la cronaca) come per dire che queste intrusioni non la toccano, che le incognite della vita non la abbattono più. Il fatto stesso che la melodia si muova poco potrebbe essere letto come un commento meta-musicale: la popstar nota per le sue acrobazie vocali, la stessa che in Be My Baby si permetteva di arpeggiare su tutta la scala senza paura di scivolare e in Imagine mostrava il controllo dell’intonazione di uno Stradivari, oggi può decidere di cantare un ritornello (quasi) mononota. E noi non ci possiamo fare nulla.

Ma l’accompagnamento strumentale della traccia mostra un’altra radice funk, che ci riporta dritti all’inizio: il modo dorico. La particolarità della scala dorica è la presenza di un sesto grado aumentato di un semitono rispetto al “normale” sesto grado della scala minore naturale: per chi prende appunti, si dice che ha una sesta maggiore. Questo fa sì che uno dei suoi accordi più importanti (quello di sottodominante, o quarto grado, sempre per i secchioni in prima fila) sia un accordo maggiore anziché minore. Forse per via di questo corpo estraneo, che “solleva” e introduce intervalli percepiti come più decisi e solidi dentro il turbamento del minore, forse semplicemente perché suona molto bene, questo modo è il preferito del funk. Gli esempi di dorico si sprecano, e vanno dall’uso più sottile nella progressione armonica (come Le Freak degli Chic) ai brani dove la sesta aumentata, cioè la nota “aliena” del dorico, è bene in evidenza nella melodia (come in Get Lucky dei Daft Punk, quando Pharrell canta “who we aaaare”). Curiosamente, a suonare la chitarra in entrambi i brani è la stessa persona, Nile Rodgers, assoluto maestro del genere.

Ma il dorico non è solo il modo del funk e della sua stralunata eccitazione. In altre canzoni che ne fanno uso si avverte la proverbiale altra faccia della medaglia di questo inusuale modo di scrivere una scala: un senso di disagio e inquietudine che, una volta sentito, non si può più fare a meno di notare. In particolare, quando le melodie effettivamente toccano quella nota “aliena”: ad esempio, il Re su cui si sofferma l’inciso di Blue Jeans di Lana Del Rey (“end of tiiime”); o il Fa diesis a cui si ancora la seconda sezione della strofa di Amarsi un po’ di Lucio Battisti (“basta guardarsi”). Ariana Grande, però, quella nota non la intona mai, preferendo lasciarci con il dubbio.

Forse la nonchalance e la coolness con cui si scrolla di dosso le critiche è una facciata? Non possiamo dirlo con certezza, ma possiamo ipotizzare che non faccia davvero differenza. Anche fingere di non essere influenzati dall’opinione altrui è, tutto sommato, una conquista, una forma di crescita ed evoluzione. A comprovare questa impressione potrebbe essere il fatto che le due sezioni principali del brano non sono suonate nella medesima tonalità, e per passare da una all’altra serve una modulazione: non di quelle tipiche delle dive del canto come Ariana, quegli esercizi muscolari che hanno reso leggendarie artiste come Whitney HoustonCéline Dion e che solo a sentirle oggi sembrano terribilmente fuori moda. Ariana e i suoi co-autori Max Martin e ILYA optano invece per una più semplice transizione fra tonalità vicine nel già citato “ciclo delle quinte”: da Si bemolle a Mi bemolle. Non è un passaggio che richieda assurdi sforzi né da parte di chi ascolta né da parte di chi canta: anzi, la melodia che discende dal Si bemolle trattenuto di “be liiiiike” al Fa di “yes” (una quinta, per la cronaca) lo fa sembrare naturale, inevitabile. Bisogna solo avere il coraggio di compiere questo passo, per accettare che di fronte a una “dark situation” talvolta la risposta migliore è: “e allora?”.

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