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Il viaggio della letteratura: natura, dolore e ricerca di sé

Il viaggio è da sempre uno dei temi principali della letteratura: ecco in che modo unisce libri anche molto diversi tra loro. E alcuni consigli di lettura.
A cura di Francesco Raiola
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Cobeta, Spagna (Getty Images)
Cobeta, Spagna (Getty Images)

C’è un filo conduttore che lega le nostre letture? Forse sì, o forse, semplicemente, ci sono temi universali che legano tra loro i libri, anche in maniera meno esplicita di quello che potrebbe sembrare a una prima lettura. Il viaggio, ad esempio, è da sempre uno di questi ed è un legame ancora più forte se lo intendiamo nelle sue svariate declinazioni.

L’estate scorsa cercavo un libro che potesse raccontarmi gli enormi spazi aperti di un’Islanda che non ho mai visitato ma di cui fantasticavo non poco anche grazie alla musica (dai Sigur Rós ad Ásgeir, passando per Ólafur Arnalds, i Múm, etc) e una ricerca online mi portò su un pezzo che ne raccontava alcuni scrittori e mi apriva le porte definitivamente a un editore che non avevo mai esplorato seriamente come Iperborea, riferimento per chiunque voglia approfondire ciò che la letteratura nord europea racconta: la ricerca mi portò a Jón Kalman Stefánsson, uno degli scrittori contemporanei più noti del Paese, autore di una trilogia che parte da ‘Paradiso e Inferno', passa per ‘La Tristezza degli Angeli' e arriva a ‘Il cuore dell’uomo’, tre titoli che forse il me 25enne non avrebbe mai preso in considerazione e che invece mi hanno aperto le porte a un’avventura incredibile ambientata in un tempo sospeso (ma che dovrebbe aggirarsi alla fine del 1800) e vede come protagonista il ‘Ragazzo’ – sarà il suo appellativo per tutti e tre i libri – e un paesaggio incontaminato che ha il mare e la neve come protagonisti assoluti. Un viaggio fisico che si sviluppa nei tre libri, in forme diverse, e soprattutto un percorso di crescita all’interno di un mondo – quello dell'Isola – volutamente stereotipato. In Stefánsson pare esistere l’Islanda che tutti noi abbiamo in testa (ma che, appunto, si rifà a un secolo fa) e tra morte – sempre presente -, letteratura, stereotipi di genere e tanta acqua (liquida o sotto forma di neve) ci accompagna attraverso la formazione del ragazzo.

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Non sono i primi né gli unici libro di viaggi, ovviamente, ma in qualche modo mi hanno portato a scoprire il finlandese Arto Paasilinna e il suo ‘L’anno della lepre’, romanzo grottesco che racconta la storia di un giornalista che a un certo punto molla il suo lavoro, sua moglie e la sua vita tutta per perdersi nello sconfinato paesaggio finnico. Stanco di un giornalismo che non fa più il suo dovere, di una moglie che non ama più (‘Era in un certo senso, cattiva: e cattiva, o meglio egoista, era stata fin da quando si erano sposati‘), il protagonista del libro, Vatanen, coglie l’occasione di un piccolo incidente per fuggire. Di ritorno in auto da un servizio assieme al fotografo con cui lavora per il giornale, infatti, investono una lepre che, subito dopo l’incidente, va a nascondersi nel bosco limitrofo. Vatanen la segue, si accorge che è ferita e da quel momento decide di non tornare più alla macchina ma di inoltrarsi, a piedi, nel paesaggio finnico/lappone, tra teorie complottiste sul Presidente della Repubblica finlandese, militari sciocchi, lavori manuali che gli danno soddisfazione, giovani politici malmenati, prigioni e una incredibile caccia all’orso. Tutto questo senza mai perdere di vista la sua lepre, simbolo di una libertà conquistata e da tenersi stretta il più possibile. Il viaggio al confine con la Russia resta un passaggio mozzafiato, che ricorda a chi scrive quello del ragazzo nelle terre innevate d’Islanda.

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Viaggi che si intersecano, appunto. La lettura di Paasilinna è arrivata, causalmente, subito dopo quella di ‘Nessuno scompare davvero di Catherine Lacey, uno dei titoli americani delle Edizioni Sur. Ai libri ci si avvicina in vari modi, per le recensioni, per il passaparola, per la sinossi, per la fiducia in un editore, certo, ma si imprime per i particolari, come successo per la copertina di questo libro. La genesi potete leggerla direttamente sul blog dell’editore Sotto il vulcano, ma non capita spesso che una copertina riesca a riassumere perfettamente il senso e le sensazioni che un libro dà. La ragazza che pian piano annega, invece, è cartina tornasole del viaggio di Elyria. Un altro viaggio, un’altra fuga improvvisa. Come avviene col protagonista di Paasilinna, anche quella della Lacey molla tutto e scompare nelle lande, più calde, della Nuova Zelanda. Un malessere personale, psicologico, spinge la protagonista a viaggiare con l’autostop, sentendosi ripetere dalle donne che incontra di diffidare dagli uomini. Elyria porta con sé il dolore della morte della sorella, suicidatasi pochi anni prima e il caso l’ha portata a sposarsi con il professore di cui era assistente, nonché ultima persona ad averla vista viva. Il suo viaggio, però, è soprattutto interiore, come descrive bene la Lacey che la mette di fronte a un bufalo interno che non riesce a controllare.

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Un dolore interiore, una storia di sorelle e un suicidio è anche quello che racconta ‘I miei piccoli dispiaceri della canadese Miriam Toews (Marcos y Marcos) che narra la storia di Yoli ed Eli, la prima affannata a vivere una vita fatta, a detta sua, di fallimenti e la seconda che cerca di perdere una vita fatta di successi dati dal dono della musica: Elf, infatti, è una nota pianista, apprezzata in tutto il mondo, dotata di un’intelligenza e una sensibilità sviluppate fin da piccola, assieme al suo carattere ribelle – le due vengono da una famiglia e una società mennonita a cui si ribellano – che però dalla vita cerca di fuggire. A differenza del libro della Lacey, la Toews riesce a mantenere un andamento che tocca tonalità comiche, grazie, soprattutto, all’autoironia con cui la scrittrice caratterizza Yoli.

Incidentalmente sono arrivati anche Gli anni’ (Le Orme), un viaggio nella storia personale (e quella della Francia) di Annie Ernaux e la rilettura di ‘Notturno Cileno’, capolavoro di Roberto Bolaño, che servendosi del monologo del prete e membro dell’Opus Dei Sebastián Urrutia Lacroix e della letteratura, racconta un pezzo di Storia cilena.

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In questo continuo gioco di rimandi e incroci di libri fiction e non fiction un filo conduttore involontario ha legato anche altri due titoli come le ‘Sette brevi lezioni di fisica’ (Adelphi) di Carlo Rovelli, diventato un caso letterario sui generis anche fuori dall’Italia. Rovelli spiega, in sei lezioni, le maggiori teorie della fisica e la loro ricaduta sul nostro vivere quotidiano, dalla Relatività di Einstein, alla teoria dei loop passando per la fisica quantistica, parlando di spazio e tempo, del rapporto di quest’ultimo col calore e affrontando, quindi, la termodinamica, intersecando fisica e filosofia e riuscendo, comunque, a tenere incollati alla pagina grazie alla capacità di portare il lettore a toccare con mano il significato pragmatico di teorie che spesso vediamo come troppo lontane da noi. Sei teorie più un capitolo dedicato a noi e un filo conduttore che ci spiega come nella fisica spesso molto possa essere riassunto (ma qua è una semplificazione estrema di chi scrive) dai concetti di relazione e interazioni. La realtà esiste solo grazie alle interazioni, ci ripete, sovente, Rovelli, che spiega come tutto è in relazione con qualcosa, esiste solo in funzione di qualcos’altro, come succede ai Loop, appunto, o i quanti:

‘Lo spazio è creato dall’interagire di quanti individuali di gravità. Ancora una volta il mondo sembra essere relazione prima che oggetti’ (p.23)

‘Specchiandoci negli altri e nelle altre cose, impariamo chi siamo’ (p.36)

‘Le cose del mondo interagiscono l’una con l’altra, e nel fare ciò lo stato di ciascuna porta traccia dello stato delle altre con cui ha interagito: in questo senso esse si scambiano di continuo informazione le une con le altre’ (p.37)

Proprio questo bisogno di relazione di cui parla Rovelli, poi, mi ha riportato alla mente il pensiero di Helen MacDonald, altro cosiddetto caso editoriale nei Paesi anglosassoni, che in ‘Io e Mabel. Ovvero l’arte della falconeria’ racconta di come la sua elaborazione del lutto per la morte improvvisa del padre passi per l’addestramento di un astore (della famiglia dei rapaci) e soprattutto per il bisogno di isolamento che questo comporta. La MacDonald, quindi, comincia ad addestrare il rapace confrontandosi continuamente con l’esperienza di T. H. White – noto al pubblico italiano per essere lo scrittore de ‘La spada nella roccia’ – autore di The Goshawk, un libro in cui si racconta, appunto, l’addestramento (fallito) di un astore. La scrittrice racconta la propria lotta con Mabel e soprattutto racconta il suo isolamento dal mondo, scoprendo, però, man mano come sia stata una scelta sbagliata. Una funzione in ricordo del padre, il ricordo delle persone che lo conoscevano, la loro vicinanza fa pian piano render conto alla Mac Donald che solo nella comunità e nella condivisione del dolore si può uscire dal buio.

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