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Guerra ai Curdi nel Rojava: è la fine di un sogno come in Spagna nel ’36

I funerali a Rojava non sono semplici commemorazioni, sono i funerali di un sogno: l’operazione “Primavera per la pace” comincia con pesanti attacchi e raid aerei sulla popolazione civile del Rojava. Ed è disarmante quanto la storia dei popoli torni a ripetersi identica e uguale a se stessa: Rojava è come Barcellona nel ’36, un laboratorio di idee, una terra di libertà e, forse, proprio per questo, come Barcellona abbandonata.
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Foto da Facebook (Internationalist Commune of Rojava).
Foto da Facebook (Internationalist Commune of Rojava).

In guerra c’è sempre poco tempo per i funerali, poco tempo per piangere o rimpiangere chi non c’è più, ma i funerali in questi giorni a Rojava non sono semplici commemorazioni, sono i funerali di un sogno: uomini e donne curdi imbracciano mitra e intorno ad una fossa, a stento riescono ancora a piangere per l’ennesima compagna o compagno caduto lottando per libertà e c’è solo il tempo per prendere fra le mani un mucchietto di terra e lasciarlo scivolare su quel corpo, insieme ad un fazzoletto inzuppato di pianto e di sangue, un fazzoletto rosso e nero. La fine del mondo, l’ho sempre immaginata così: un uomo con la pelle a brandelli, e le budella che vengono fuori dallo stomaco aperto, urla di dolore tenendo fra le braccia il suo piccolino, anzi il corpicino esanime di quello che era stato suo figlio fino a pochi istanti prima, e il pianto straziante è più forte del suo dolore stesso, le mura dell’ospedale crollano all’improvviso, la scena viene coperta da un cumulo di macerie, e, mentre si alza solo polvere, si ode ancora l’eco di quell’urlo e poi il silenzio, lacerante, tremendo, coperto solo da nuove sirene, nuovi schianti, nuove grida. L’operazione “Primavera per la pace” comincia così con pesanti attacchi e raid aerei sulla popolazione civile del Rojava. Ed è disarmante quanto la storia dei popoli torni a ripetersi identica a se stessa. Disarmante perché ti lascia del tutto privo di qualsiasi arma dinanzi al suo ineluttabile ripetersi. E così, mentre oggi una ragazzina, o un ragazzino, guarda per la prima volta nella sua vita "Terra e Libertà" (il film di Ken Loach) – scoprendo l’amara sorte dei miliziani anarchici nella Spagna del ’36 – le donne e gli uomini che, in questi anni, hanno cercato di dar vita ad un sogno libertario a Rojava, subiscono, ora dopo ora, la stessa, identica, amara sorte: l’utopia infranta a causa delle azioni di quegli stessi che erano lori alleati e del mondo, che inerme, resta a guardare.

Curdi abbandonati nel Rojava, in Siria

È il 9 ottobre 2019 e, dopo anni di lotte, il popolo Curdo si ritrova in pochi istanti catapultato di forza, ancora in guerra: Erdogan annuncia l’inizio dell’offensiva per cacciare le forze curde dal territorio lungo il confine, con l’obiettivo di creare “una zona sicura” in cui trasferire i profughi siriani che vivono in Turchia, che tradotto vuol dire 27 miliardi di dollari per costruire villaggi, moschee, ospedali e scuole, ovvero un tentativo di ripresa economica per un paese in gravissima crisi. Tutto questo operando una mastodontica sostituzione demografica, che porterebbe due milioni di profughi siriani in una striscia di terra al confine con la Turchia, fino ad allora abitata storicamente dai Curdi. Due milioni di profughi costretti a tornare nella terra da cui sono fuggiti perché perseguitati dal feroce regime di Assad, e centinaia di migliaia di Curdi a spasso per chissà dove, perseguitati ancora una volta per la propria ambizione alla libertà, all’essere un popolo. Tre giorni prima, il 06 ottobre, il presidente Trump, dopo una telefonata con il presidente turco Erdogan, aveva annunciato il ritiro delle truppe degli Stati Uniti d’America dal nord della Siria e così, in un attimo, insieme ad un contingente di più di 1000 uomini sparisce anche l’appoggio dell’occidente al popolo curdo e al fronte che in questi ultimi anni aveva portato avanti una tenace resistenza e guerra contro l’avanzata dell’Isis, lo stato islamico, contro le sue barbarie, rendendosi protagonista poi non solo di una sorprendente vittoria, ma anche di una rivoluzione che poneva al suo centro la libertà, l’assoluta parità fra donne e uomini e l’autodeterminazione. Rojava quindi, pur essendo una regione autonoma de facto nel nord e nord-est della Siria, non ufficialmente riconosciuta da parte del governo siriano, presto diviene simbolo di lotta per il decentramento, l’uguaglianza di genere, la sostenibilità ambientale, la tolleranza pluralistica per la diversità religiosa e per la costruzione o ricostruzione di un futuro diverso, di un altro mondo possibile come si diceva anni fa, di un’altra storia. Così accorrono da tutto il mondo uomini e donne a sostenere la lotta per la libertà e la resistenza del popolo curdo contro l’Is che è resistenza contro le barbarie, contro il fascismo di qualsiasi aspetto ed è lotta per l’emancipazione: molte sono le combattenti donne che muoiono in questi anni e che verranno ricordate per il coraggio espresso, per il sogno maturato su quei campi. Rojava è come Barcellona nel ’36, un laboratorio di idee, una terra di libertà. E forse, proprio per questo, come Barcellona abbandonata.

Rojava come Barcellona nel '36

In Spagna i repubblicani avevano tenuto testa alle milizie di Franco che voleva schiacciare nel sangue la Repubblica, e Barcellona per pochi mesi era divenuta terra di libertà, un luogo di resistenza contro i fascismi nascenti che attraversavano tutta l’Europa e così da tutto il mondo erano accorsi volontari internazionali per sostenere quella causa. Ma ben presto Barcellona fu abbandonata da tutto il resto del mondo e così, da una parte, schiacciati dal regime stalinista con il suo falso supporto e dall’altra dalle milizie franchiste, i repubblicani, in gran parte anarchici, restarono soli e abbandonati in fuga dalla loro terra, perseguitati da chi avevano cercato di liberare. Allo stesso modo i combattenti di Rojava schiacciati dal falso appoggio dall’esercito siriano di Assad, da una parte e dai turchi, dall’altra, restano per ora abbandonati nella loro terra e perseguitati da chi avevano cercato ostinatamente di liberare.

A questo punto però la narrazione dei media di regime, e non solo, cambia e cosi non vengono più raffigurati come eroiche figure, meravigliosi volti femminili dediti alla libertà, ma come un esercito illegittimo che usa armi chimiche contro civili nemici e inermi: la guerra oramai la si combatte su più fronti e un buon ufficio stampa può fare la differenza e in questa battaglia, la verità conta quanto un’opinione e i fatti li si possono costruire a tavolino. Per cui non è fondamentale che sia vero oppure no che abbiano usato armi chimiche, soprattutto in una società sta demolendo il concetto stesso di verità basata sui fatti, in una società dove dopotutto, le ragioni di Trump, possono essere valide: abbandoniamo i curdi perché alla fine della fiera loro per noi in Normandia non hanno fatto nulla (citazione più o meno testuale). Ragionamento peraltro condivisibile, perché dopotutto, nessun curdo mi ha mai pagato l’affitto, quindi perché io dovrei preoccuparmi della loro sorte? E in tutto questo purtroppo ancora una volta la Siria diviene evidenziatore della rovina morale nella quale vessiamo, la raccolta di cocci di etica a cui siamo sottoposti giorno dopo giorno: siamo oramai talmente  influenzati dalla narrazione che i media e i social ci offrono della realtà, da preoccuparci soltanto delle storie proposte dalla bolla curata per noi dall’algoritmo di facebook o del nuovo social di turno, ci affezioniamo ad una storia solo per pochi giorni, il tempo che sia “trend topic”, per poi dimenticarcene e dedicarci ad altro; sono in pochi, difatti, a ricordare le orribile vicende che il popolo siriano vive da anni a causa di un’immonda guerra civile. Ma quella dei Curdi non è soltanto la storia di un popolo che soffre e muore sotto le bombe, è anche la storia di un funerale, il funerale di una rivoluzione quasi vinta, delle illusioni perdute, dei sogni infranti, di un popolo che lotta per la libertà, ed è la fine del mondo perché sarà pur vero che se salvi una vita salvi tutto il mondo ma è altrettanto vero che se uccidi una vita, uccidi tutto il mondo, e se uccidi un popolo allora è la fine del mondo.

Terra e Libertà finisce proprio così, con un funerale: molti anni dopo quel 1936, uno dei volontari internazionali che erano accorsi al capezzale della libertà in quei meravigliosi giorni di speranza a Barcellona, che è anche il protagonista della storia, muore di una morte leggera e naturale e la sua giovanissima amata nipote scopre fra le sue carte ingiallite dal tempo, foto e ritagli di giornale che raccontano la storia di suo nonno fra le barricate anarchiche. Al suo funerale fra i vecchi compagni che lasciano scivolare sulla sua bara mucchietti di terra raccolta con le mani, la sua nipotina rovescia il contenuto di un fazzoletto rosso e nero che suo nonno aveva gelosamente conservato per decenni: un po' di quella terra di Barcellona, quella terra che per qualche mese era stata di tutte e di tutti, quella terra di libertà. E così accade che una ragazzina solleva il pugno e canta le canzoni di quella primavera che per un attimo torna a vivere e che prima o poi ritornerà. E forse fra molti anni, oppure pochi, una ragazzina troverà le lettere, i racconti, le foto delle combattenti di Rojava e comincerà a sognare un futuro diverso per se e per tutte e tutti i migranti del mondo – perché alla fine non siamo altro che questo – e si renderà conto, in un istante, di come la storia dei popoli torni a ripetersi identica e uguale a se stessa, anche, e sempre, nella lotta e nella rivoluzione.

“Unisciti alla battaglia.

L’unica che l’uomo non può perdere.

Perchè chiunque cada e muoia

sarà l’esempio per quelli che trionferanno.”

No pasaran

Dedicato a Lorenzo Orsetti, combattente anarchico morto in Siria per la libertà

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