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Carlo Cresto-Dina: “Il produttore è come un allenatore, deve gestire processi collettivi creativi”

Il fondatore di Tempesta racconta i prossimi progetti della sua casa di produzione, tra serie e film, autrici consolidate come Alice Rohrwacher ed esordienti come Margherita Vicario, e riflette su quelle che sono le necessità del mercato italiano, che – dice – non può fare a meno di realtà indipendenti.
A cura di Gianmaria Tammaro
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Nel 2009, quindici anni fa, Carlo Cresto-Dina ha fondato Tempesta, una società di produzione che – dice – ha sempre avuto un obiettivo: essere diversa, e fare qualunque cosa in suo potere per poter difendere e sostenere questa diversità. Nel tempo, Cresto-Dina ha prodotto i film di Alice Rohrwacher (l’ultimo, La chimera, uscirà a fine mese negli Stati Uniti; lo aspetta una lunga campagna che, con buone probabilità, gli aprirà le porte per i prossimi Oscar). E quelli di Leonardo Di Costanzo, come il bellissimo Ariaferma, dove finalmente si fronteggiano i nostri Robert De Niro e Al Pacino: Toni Servillo e Silvio Orlando.

Soprattutto, però, Tempesta e Cresto-Dina hanno costantemente provato a dare spazio alle novità. Perché senza novità non c’è vita per i produttori indipendenti. Ed è in questo modo che sono nati progetti come Gloria! di Margherita Vicario, al cinema dall’11 aprile con 01 Distribution: un film che, dice Cresto-Dina, è una via di mezzo tra tante cose,  tra leggerezza e musica, tra visionarietà e talento, e che rispecchia quella che è la vera natura della sua regista.

Quando si parla di distribuzione, Cresto-Dina ci va con i piedi di piombo. Non è il mio mestiere, precisa, e non ha senso dare tutta la colpa ai distributori. Quando invece si parla di produzione, prova a trovare dei punti fermi da cui partire – chi produce, spiega, gestisce “processi collettivi creativi” – e a costruire una riflessione seria non tanto sulle possibilità quanto sulle responsabilità che hanno i lavoratori della cultura. Anticipa alcuni dei prossimi progetti di Tempesta, come la serie di Alice Rohrwacher, un’altra di fantascienza comica, il nuovo film di Di Costanzo e il western di Giovanni Aloi, Apache 77. E ragiona sulla necessità che il sistema italiano ha di realtà indipendenti. Questo è il suo Controcampo.

In queste ore, in molti hanno condiviso un video in cui Greta Gerwig dice di apprezzare moltissimo Alice Rohrwacher. Secondo te, abbiamo un problema a riconoscere i nostri talenti senza la legittimazione di qualcun altro?
Se parliamo in generale, non saprei dirti. In questo momento mi sembra che i talenti italiani vengano supportati e seguiti. È chiaro che una menzione che viene da fuori, dall’estero, aiuta sempre. Nel caso specifico di Alice, devo dire un po’ a malincuore che vedo una grossa difficoltà ad ammettere semplicemente che nel nostro paese è nata una donna – e per qualcuno anche questo è un problema – che ha un talento e un’originalità unici. È abbastanza significativo. Io ogni tanto mi altero, e mi viene voglia di rispondere a certi articoli. Poi, per fortuna, il buon Jacopo (Bistacchia, ufficio stampa di Tempesta, ndr) mi frena.

Che cos’è che ti fa arrabbiare?
Questo bisogno che alcuni hanno di dover associare per forza Alice e i suoi lavori a dei modelli perlopiù maschili, inserendola tra l’altro in una scia di autori che sono venuti cronologicamente dopo di lei, che hanno fatto i primi film quando lei aveva già vinto due volte a Cannes.

Da che cosa deriva questo problema?
Forse facciamo fatica nel riconoscere i talenti che ci sono più vicini. Però se penso alle volte che sono andato negli Stati Uniti con Alice e a tutte le persone che l’hanno fermata mentre andavamo in giro o a quelle che hanno riempito le aule della Columbia University per ascoltarla, non riesco a non farmi qualche domanda. In Italia stiamo facendo un po’ più di fatica, ma secondo me, piano piano, ci stiamo arrivando.

Sempre a proposito di Alice Rohrwacher, non posso non citare l’incredibile partecipazione che c’è stata dopo il video che ha girato con Josh O’Connor per invitare le persone ad andare in sala a vedere La chimera (co-prodotto con Rai Cinema, ndr). Dal tuo punto di vista, sta diventando sempre più urgente avvicinare i bisogni produttivi e quelli distributivi? E quindi parlarsi prima dell’arrivo di un film per raccontarlo nel modo migliore al pubblico?
Io litigo con i distributori; ci litigo tantissimo. Penso però che dare tutta la colpa a loro sia la strada più facile. C’è un percorso molto più ampio e complesso che porta all’uscita e, ancora prima, alla realizzazione di un film. Ed è quel percorso che andrebbe raccontato cercando di tenere bene in mente quello che poi sarà il pubblico di riferimento. Ti faccio un esempio.

Dimmi.
Noi siamo una piccola casa di produzione, ma per uno sbilanciamento evidente tra offerta e domanda riceviamo ogni anno circa 200 proposte. Ed è abbastanza interessante notare lo spaesamento di alcuni giovani registi e registe quando chiediamo: per chi sarebbe questo film? Per chi l’hai immaginato? Detto questo, credo che la cosa più interessante del lentissimo rullaggio de La chimera sia un’altra.

Quale?
Non tanto per le scelte del distributore, ma perché ha messo in evidenza l’esistenza di un pubblico, di solito molto giovane, che è pronto ad andare in sala e a vedere film quando viene coinvolto nel modo giusto. Attenzione: parliamo di un pubblico particolare, perché estremamente frastagliato e disperso. Ciò che serve è capire come fare per raccoglierlo. E questo è un argomento incredibilmente intrigante.

Anche perché è un tema universale, che riguarda tutti i film, non solo quelli di Alice Rohrwacher.
Noi, ora, abbiamo fatto un altro film, Gloria! di Margherita Vicario. È stato in concorso a Berlino, e per un’opera prima è un grande traguardo. È una specie di mezzo miracolo: assomiglia un po’ a un musical e un po’ a una commedia musicale, è in costume, ambientato nel Settecento veneziano, ed è drammatico e pieno di storie d’amore. E il lavoro che ci aspetta, ora, è esattamente quello di provare a intercettare il pubblico che ama e segue Margherita Vicario. Ci tengo a precisare una cosa: questa non è un’operazione puramente commerciale; non abbiamo provato a trapiantare un talento da un settore a un altro. Non siamo partiti da: “facciamo fare un film a un influencer”.

Torniamo al pubblico.
Secondo me, c’è un pubblico che ha voglia di liberarsi dal magnetismo del salotto di casa. Una volta, Silvio Orlando mi ha detto questa cosa, incredibilmente efficace nella sua sinteticità: il business plan delle piattaforme è il divano. E io penso che ci sia un po’ di gente che è stufa di rimanere sul divano e che è sinceramente interessata a tornare al cinema. Bisogna darle un buon motivo per farlo.

Prima di concentrarci su Gloria!, voglio chiederti un’ultima cosa su La chimera. È nei vostri piani provare a iscriverlo agli Oscar del prossimo anno, nelle categorie principali, approfittando della distribuzione americana?
Il film esce con NEON, che è anche co-produttore, il 29 marzo. E l’idea è quella di fare un lancio importante negli Stati Uniti nei prossimi mesi. Devo dire che è molto interessante lavorare con un distributore americano di questo valore e di questa portata. Facciamo una riunione ogni settimana, in cui ci aggiornano su tutto. Certo, hanno un paese vasto che permette una distribuzione temporalmente più ampia. A un certo punto, raggiungeranno un picco di 400 copie, che negli Stati Uniti sono poche, è vero, ma comunque importanti. Questo è il programma. Vediamo come va. Se la spinta funziona, possiamo ragionare più lucidamente sul prossimo anno.

NEON ha anche distribuito Parasite di Bong Joon-ho. Qual è la differenza più grande tra lavorare con una realtà come questa e una realtà italiana?
Non è possibile fare un paragone, perché le dimensioni e le caratteristiche dei due mercati sono profondamente diverse. NEON si muove in un’industria dove la nicchia interessata al cinema europeo è costituita comunque da milioni di persone. È un campionato completamente differente. Ogni volta che li sento ho la sensazione che siano sempre al lavoro su qualcosa di nuovo, pronti ad aggiornarsi. Cosa che possiamo fare anche noi, intendiamoci. Basta impegnarsi.

L’11 aprile, il giorno in cui Gloria! (co-prodotto con Rai Cinema, ndr) arriverà nelle sale, verrà distribuita un’altra opera prima: Flaminia di Michela Giraud. Secondo te, il cinema italiano fatica a fare sistema e a sostenere gli esordi dei nuovi autori?
Gloria! e Flaminia hanno due pubblici di riferimento diversi. Forse solo in minima parte, finiranno per sovrapporsi. In Italia non si fa tanto sistema, no. Io però, e devo dirtelo, non mi intendo di distribuzione; faccio un altro mestiere. Abbiamo questa tendenza di fare tutti gli allenatori di calcio; pensiamo di sapere esattamente come andranno o come dovrebbero andare le cose. In realtà, per quello che ho visto io, è molto più complicato di così. Gli spazi e le finestre, innanzitutto, sono ridotti. In quelle settimane di aprile, al cinema arriveranno tante altre cose. Diventa difficile trovare il momento giusto. La situazione ideale sarebbe avere due settimane senza concorrenti, ma lo sappiamo: è impossibile.

Tu che cosa pensi?
Quello che ti dicevo prima: che sono due film che parlano a due pubblici differenti. Noi, di Gloria!, siamo contentissimi.

Che cosa vi ha colpito e attratto di Margherita Vicario?
La prendo un po’ larga, perdonami.

Prego.
Sono stato invitato alla FAMU di Praga, la scuola che per tanti anni è stata il centro del cinema dell’Est Europa e che ha formato autori come Kusturica, per due giorni di lezioni. Non ho ancora ben chiaro che cosa dirò, però ho l’intenzione di portare Gloria! come caso di studio, perché rappresenta bene una cosa.

Quale?
In che cosa consiste il lavoro del produttore. Voglio dire: alla fine di tutto, qual è il nostro compito?

Te lo chiedo anche io.
Io vengo da una famiglia di contadini, sono cresciuto in una cascina; e una mia vecchia zia, che ora non c’è più, mi faceva sempre questa domanda: ma tu che lavoro fai? Per carità: in quel caso parliamo di una persona che nella vita aveva sempre fatto altro. Ma credo che anche chi si occupa di cinema faccia fatica a dare una definizione del lavoro del produttore. Io ci provo a ragionare su quello che fa il produttore, e in estrema sintesi penso che sia qualcuno che gestisce dei processi collettivi creativi. E questi processi, proprio perché sono di natura collettiva e creativa, sono anche processi complessi. E il produttore deve sapere come fare per controllarli. Ecco, già visto in questa prospettiva, il ruolo del produttore assume un fascino differente. Io sono un tifoso dell’Arsenal, e sul nostro sito c’è la citazione di uno dei più grandi allenatori di calcio, Arséne Wegner: “We do not sign big players, we make them” (“Noi non assumiamo grandi giocatori, noi li creiamo”).

Perché?
Perché, se descrivi il ruolo del produttore come te l’ho appena descritto io, assomiglia tanto al lavoro che fa un allenatore sportivo. E assomiglia tanto al ruolo della mia amica Frances Morris, che dirige la Tate di Londra. Quindi c’è molto su cui riflettere.

Questo in che modo si ricollega alla domanda che ti facevo prima, su Margherita Vicario?
Gloria! nasce nel momento esatto in cui ho visto il videoclip musicale di Per un bacio, che per certi versi sembra quasi un’opera lirica: i personaggi si parlano cantando. Questa cosa mi ha affascinato, e allora ho contattato Margherita e le ho proposto di fare un film. Lei, all’inizio, si guardava intorno come se si aspettasse da un momento all’altro di vedere delle telecamere nascosto. Ecco, il fiuto e la capacità di intuire qualcosa che altri non vedono fanno parte del mestiere del produttore.

Dopo quel primo contatto, che cosa è successo?
C’è stato un lavoro molto lungo, di scambio e confronto. Stiamo parlando di un film che ha trovato la sua forma finale, quella che arriverà al cinema, dopo quattordici versioni della sceneggiatura. E non si è trattato di piccole modifiche; sono state riscritture complete. E ci tengo a dire che Gloria! è stato prodotto da tre persone. Da me, da Valeria Jamonte e da Manuela Melissano. E questo è un credito reale, non è uno di quei distintivi giocattolo che i bambini si appuntano sul petto. I film funzionano se sono il frutto di un prolungato processo collettivo creativo: questo voglio ribadirlo e credo che sia fondamentale riconoscerlo.

Ci si può ritagliare ancora così tanto tempo per lavorare a un progetto o sta diventando sempre più complicato?
Ti dirò, la mia sensazione è un’altra. Questo tipo di cura, alla fine, aggiunge un valore reale a ciò che produciamo. E questo valore viene riconosciuto. Torniamo ancora una volta, se me lo chiedi, al lavoro del produttore. Che non ha niente a che fare con l’ego.

E con che cosa ha a che fare?
Con la responsabilità di presiedere e difendere la diversità. Per questo bisogna proteggere i produttori indipendenti. E intendiamoci: proteggere, in questo caso, va inteso nel senso di dare strumenti e risorse per fare il proprio lavoro. I produttori indipendenti, per loro natura, campano solo se riescono a trovare il nuovo, non se ripropongono sempre la stessa cosa nello stesso modo. I grandi gruppi si affidano a meccanismi che hanno già avuto successo. Se noi non diamo una forte autonomia ai produttori indipendenti e se restringiamo sempre più di più i luoghi dove si decide se procedere o meno con un progetto, rischiamo una monocultura. Rischiamo, cioè, di essere invasi da cose estremamente simili tra di loro.

Rimanere indipendenti è faticoso in Italia? Questo è un paese che riconosce il lavoro delle realtà più piccole?
Si direbbe di no, ma è una situazione che non riguarda solo noi. Oramai, circa l’80/90% di quello che viene prodotto in Italia, in termini di valore e budget, viene sviluppato da società controllate da grossi gruppi stranieri. E controllate è la parola giusta per definire questi rapporti. Perché è chiaro che un investitore non italiano non vuole limitarsi a spendere soldi, ma che vuole controllare. In questo non c’è niente di male. Va benissimo. Perché ti dà più possibilità. Ma quando la maggior parte delle società viene venduta a controllanti stranieri, secondo me dovremmo fare un passo indietro e fermarci a riflettere.

Su cosa?
Sull’impatto che questa cosa può avere, a lungo termine, sul mercato e su ciò che facciamo. Questo governo, che è il più lontano da me per idee e colori politici, dovrebbe dire qualcosa. Dovrebbe intervenire. Io non credo alla priorità che secondo alcuni deve avere l’italianità, ma è chiaro che bisogna istituire un qualche tipo di tutela e di supporto per chi, nonostante tutto, continua a insistere e a rimanere indipendente.

Che tipo di supporto?
Io non faccio politica, non è il mio mestiere; ma serve qualcosa del genere. E poi, se ti devo dire la verità, non credo che se avessimo venduto la nostra società a qualcun altro oggi saremmo qui a fare le stesse cose. Non ne sono per niente sicuro. Difendere la diversità del mercato è fondamentale, perché la diversità è cultura.

Chi è che ha l’ultima parola? Il produttore o l’autore?
In ambiti diversi e situazioni diverse del processo di cui ti parlavo prima, l’ultima parola può spettare sia all’uno che all’altro. Ma ancora più importanti sono i momenti in cui si decide insieme, dove non ci può essere qualcuno che comanda. Quando ho incontrato Alice Rohrwacher e abbiamo deciso di fare Corpo Celeste, ho riconosciuto immediatamente il suo talento. Ed è chiaro che quel talento deve potersi esprimere. Io, per esempio, penso che per il casting la decisione sia del regista. Perché è il regista, poi, che deve lavorare con un determinato attore. Non è detto che andrà bene, per carità. Ma è giusto così.

Insieme a Rai Cinema, Tempesta ha prodotto anche Ariaferma di Leonardo Di Costanzo, il film con Toni Servillo e Silvio Orlando. Quanto sono importanti, nell’economia del vostro lavoro, titoli come questo? Diretti da autori già consolidati come Di Costanzo, che viene dal documentario, e non per forza appartenenti al “nuovo” di cui parlavi prima?
Sono molto importanti, sì, ma sono anche dei processi che nascondono la loro complessità e il loro costo. Il primo film di Leonardo, che si chiama L’intervallo, è stato scritto durante un workshop di oltre un anno con dei ragazze e ragazzi napoletani a cui inizialmente non abbiamo neppure detto che volevamo fare un film con loro. È evidente lo sforzo che serve per tenere in piedi un lavoro del genere. Ma è questo, secondo noi, che fa la differenza. I film di Leonardo per noi sono film fondamentali. E poi, ecco, permettimi una precisazione.

Dimmi.
Di Di Costanzo si cita spesso il suo passato da documentarista, ma secondo me nei suoi lavori sono ancora più evidenti la sua adolescenza e la sua giovinezza teatrali. I suoi film hanno una capacità di tensione drammatica incredibile, simile al meccanismo della bomba sotto il tavolo di Hitchcock: forse esploderà, forse no, e per tutto il tempo resiste questa tensione. I film di Leonardo sono thriller morali, perché ti lasciano con una questione morale precisa.

Tempesta è stata fondata nel 2009, quindici anni fa. Quanto è cambiata in questo tempo?
È cambiata nelle cose che cerca, probabilmente, ma non nell’atteggiamento e nell’attitudine di base. Fin dall’inizio, ho sempre avuto chiara in testa un’idea: bisogna essere diversi e fare cose diverse per sopravvivere. Quando Corpo Celeste è uscito al cinema molti ci dicevano che non sembrava un film italiano, e io l’ho sempre visto come un complimento.

Perché?
Non perché essere italiani o dimostrare la propria italianità siano un male. Figurati. Ma perché, per le persone che ce lo dicevano, voleva dire che facevamo film mai visti, nuovi, paragonabili per inventiva e originalità a opere straniere. Con la serialità, stiamo facendo un po’ più di fatica per questo, perché dobbiamo capire cosa possiamo offrire di diverso rispetto agli altri.

Avete qualche idea?
Non posso dirti molto, ma al momento stiamo sviluppando una serie di fantascienza comica. È una cosa che ci ha fatto molto ridere e che ci ha convinti esattamente per questo motivo. Forse falliremo, forse non riusciremo a farla, ma almeno ci avremo provato.

E se non sbaglio state lavorando anche a una serie di Alice Rohrwacher.
È una serie family, sì. Ed è strepitosa. Attinge in modo molto libero alla tradizione della fiaba italiana. Alcuni parlano di Calvino, ma Calvino è stato uno degli ultimi a raccogliere una certa produzione. Se ti devo dare un riferimento, visto che siamo notoriamente presuntuosi, ti dico il Pinocchio di Luigi Comencini.

Quindi da una parte una serie di fantascienza comica, dall’altra il nuovo progetto di Alice Rohrwacher. Per quanto riguarda i film, invece, che cosa puoi dire?
Leonardo Di Costanzo ha scritto un altro strepitoso film, che è liberamente tratto da Io volevo ucciderla, un libro che raccoglie i dialoghi tra un criminologo, Adolfo Ceretti, e una donna che ha commesso omicidi plurimi in famiglia. Un altro esperimento che stiamo facendo nella direzione di Gloria! è un film a cui stiamo lavorando con Giovanni Aloi, un regista italiano cresciuto in Francia. Si chiama Apache 77 ed è un western contemporaneo. Ma proprio western, voglio precisarlo.

Dov’è ambientato?
In Liguria, sul confine tra Italia e Francia. Ci sono continui riferimenti. I tre sceneggiatori, Giovanni Aloi, Gianni Tetti e Nicolò Galbiati, hanno farcito in modo molto furbo ogni passaggio con ammiccamenti al genere. La storia si svolge, diciamo così, nel mondo dei tassisti. Il bar dove si incontrano si chiama The Saloon. Spesso si vedono esibizioni di Monster truck, come se fossero dei rodei. E nel finale c’è uno scontro a fuoco, tipo duello. E ci sono pure gli indiani. C’è tutto, davvero.

Che cos’è il cinema d'autore?
È un cinema che, tornando alla definizione che ti ho dato poco fa, è gestito in pieno accordo tra un produttore e un autore.

Che rapporto avete con le piattaforme streaming?
Abbiamo dei rapporti di vendita. Abbiamo prodotto solo una mini-serie per Amazon, Love club. Poi, dopo una lunga trattativa, abbiamo venduto a Netflix i diritti di Lazzaro felice per le Americhe, anche se loro ci chiedevano i diritti per tutto il mondo. E poi adesso ci piacerebbe fare Apache con qualcuna di queste realtà.

Perché Tempesta?
Principalmente per l’opera di Shakespeare. In un libretto scritto da una storica, Frances Yates, c’è il racconto del progetto politico che c’era dietro la Tempesta. Ed è un prospetto culturale molto interessante. Sul nostro sito, abbiamo riportato una citazione di Calibano, che è la personificazione della mostruosità. E poi nella Tempesta il rapporto tra Prospero e Ariel ricorda molto, per certi versi, il rapporto che secondo me si deve instaurare tra autore e produttore.

Perché hai scelto di fare questo mestiere?
Perché credo veramente nel lavoro culturale. Io penso che produrre e diffondere cultura siano parte della creazione e della manutenzione di un tessuto che serve alla convivenza umana. In modo molto, molto profondo. Non è il divertimento, il punto. Quello che facciamo è fondamentale per tenere viva la speranza che la nostra convivenza non diventi mai uno scontro.

Un buon film può cambiare la percezione di chi lo vede?
A volte sì e a volte no. Ma non credo che questo sia lo scopo.

Qual è, allora?
È la creazione di un contesto preciso, fatto di attenzioni. Sono tanti film, tanti libri e la sanità di un sistema a fare la differenza. Non una cosa sola.

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È nato a Napoli il 24 ottobre del 1991. Per qualche anno, è stato direttore della sezione CartooNA del COMICON. Ha curato le Masterclass Off per il Giffoni Film Festival. È stato consulente editoriale di Lucca Comics and Games. È giornalista pubblicista. Collabora con quotidiani e riviste, e si occupa principalmente di spettacoli e di cultura.
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