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Aposiopesi: la figura retorica di quando lasci il discorso in sospeso

“Potremmo uscire stasera, anche se con questo tempo…”, “Non riesco proprio a spiegarmelo, a meno che…”, “Suo padre è molto simpatico, mentre sua madre…”. Il nome greco di questa figura retorica suona difficile, mentre in latino è chiamata “reticenza”: nel non dire, uno degli strumenti più espressivi che abbiamo.
A cura di Giorgio Moretti
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La parola che pare più sconosciuta, aulica e perfino difficile da pronunciare o scrivere può significare qualcosa di incredibilmente comune e naturale. E questo accade con frequenza speciale con le figure retoriche, che ricordiamo, non sono solo pane per oratori e poeti: sono il pane quotidiano di tutti noi (e questa è una metafora). Non si può nemmeno andare al mercato a comprare il pesce, dal fornaio a comprare il pane senza sentirne e usarne a profusione. Quindi, partiamo dicendo che tutti usiamo l'aposiopesi, anche se il più delle volte non ce ne accorgiamo.

L'aposiopèsi è una figura retorica, come dicevo in apertura, anche nota come "reticenza" (e in effetti "reticenza" traduce il greco "aposiòpesis", da "aposiopào", che significa "tacere"), ma anche come "sospensione". Comunque scegliere di chiamarla aposiopesi, piuttosto che con questi altri termini, lucra il vantaggio del nome specifico, privo di altri significati generali. Ma in che cosa consiste di preciso questa figura retorica? Ebbene, nell'aposiopesi il discorso viene interrotto ad arte, lasciando intendere ciò che segue. Come se non si volesse o non si potesse dire. "No, Francesca non mi piace. Maria…"; "Senza malizia, ma Giovanni, insomma, avuta l'eredità… Ti va un caffè?"; "Eh, la cena è andata benissimo, poi siamo saliti da me…".

Solo con questi poveri esempi si può intendere la sistematicità con cui ricorriamo a queste interruzioni del discorso, e la varietà di effetti che può suscitare. È un artificio che si fonda sull'allusione: è stimolante perché chiede a chi ascolta di immaginare il seguito, e allo stesso tempo comunica che non è il caso di dire tutto. Qui la reticenza diventa uno schermo opportuno, un velo dietro al quale soltantio si suggerisce che cosa ci potrebbe essere. Chi ascolta si fa complice dell'integrazione.

C'è un piccolo problema, però, con l'aposiopesi, una difficoltà che soffre nella forma scritta a differenza di tante altre figure retoriche che invece passano dall'orale allo scritto senza scosse: per esprimerne una, nel parlato si dispone di una batteria ricchissima, di un vero arsenale di espressioni vocali, mimiche e gestuali (occhiolini, alzate di sopracciglia e ammiccamenti vari, languori, sorrisi, risolini, scuotimenti di testa e via e via) con cui è possibile dare spessore all'allusione, renderla pesante, accattivante, solleticante. Invece per iscritto tante volte non si può ricorrere che ai semplici puntini di sospensione. Certo, anche se sono il mezzo più comune per rendere questa sospensione, in prosa e in poesia è stata sperimentata in ogni sua possibile forma: ma quello dell'aposiopesi è un canale che per noi tutti è molto facile da intendere, da cogliere al volo, e i puntini di sospensione riescono bene a farcela suonare. Un tipo di comunicazione così naturalmente potente può essere calcolato con astuzia misurata, ma ciascuno di noi, comunque, lo sfrutta intuitivamente, senza che nessuno gliel'abbia insegnato esplicitamente. La retorica di base condivisa letteralmente da tutti (e non è una base sottile) s'impara come si impara a fare battute, come si impara ad essere gentili.

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Nato nel 1989, fiorentino. Giurista e scrittore gioviale. Co-fondatore del sito “Una parola al giorno”, dal 2010 faccio divulgazione linguistica online. Con Edoardo Lombardi Vallauri ho pubblicato il libro “Parole di giornata” (Il Mulino, 2015).
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