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Opinioni

Banche: perchè la crisi “sistemica” non è come ve la raccontano

Si continua a parlare di crisi sistemica del settore bancario e a invocare “imminenti” soluzioni consistenti in un intervento pubblico straordinario. Ma le cose non stanno come in troppi cercano di rappresentarle. Ecco perchè…
A cura di Luca Spoldi
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Non passa giorno che sulla stampa italiana non si preveda la soluzione “prossima di tutti i mali del mondo, almeno di quello bancario, nello specifico di quello bancario italiano. Dormite tranquilli (se non siete azionisti o obbligazionisti di qualche banca) o godetevi le vostre sacrosante ferie estive: la soluzione non è affatto dietro l’angolo per il semplice motivo che non c’è bisogno di alcuna soluzione “di sistema” per risolvere l’annoso problema dei crediti deteriorati che gravano sui bilanci solo di alcuni istituti e non di tutti. Quello di cui ci sarebbe bisogno anche nel “bel paese” è una massiccia dose di realtà e di mercato.

Due brutte parole, pare, secondo l’opinione di molti politici e banchieri (e dei loro coriferi), figure che in troppi casi tendono ancora a coincidere in modo imbarazzante, nonostante decenni di malagestione e depauperamento del sistema economico italiano dovuto all’abuso di criteri “politici” nell’erogazione del credito e non solo. Eppure c’è ancora chi, come Fabio Bolognini, riesce a ricordare come stiano le cose semplicemente chiamando la realtà col suo nome. In un recente post del suo fortunato blog Bolognini, che di mestiere fa il consulente finanziario esclusivamente per piccole e medie imprese dopo aver lavorato per anni all’interno del settore creditizio (questo il suo profilo su Linkedin) ricorda 10 motivi per cui la “crisi bancaria” non è tale a quella che raccontano i banchieri italiani e la loro associazione (Abi).

Lasciando perdere gli aspetti più direttamente legati alla borsa, che a mio parere non dovrebbe mai essere presa come scusa né per varare certi provvedimenti né per opporvisi, essendo del tutto evidente che chi investe in titoli azionari, ma anche obbligazionari, deve essere consapevole delle proprie scelte, pena l’ottenimento di perdite o di guadagni inferiori a quelli che avrebbe potuto realizzare diversamente, un punto è fondamentale nell’analisi di Bolognini: la situazione sia pure gradualmente sta già migliorando da sé, come comprova il fatto che operatori come Banca Ifis siano già intervenuti ripetutamente acquistando pacchetti di Npl per un controvalore di 2 miliardi solo da inizio anno.

Se la crisi fosse ancora nella sua fase acuta tali acquisti non si sarebbero verificati, come non si sarebbero avute le cessioni di pacchetti di Npl da parte di Mps o Bper (quest’ultima proprio oggi ha portato a termina la cessione pro-soluto di un portafoglio di Npl per complessivi 450 milioni di euro circa di valore lordo di libro, di cui 85 milioni riferiti a crediti “unsecured” ossia non assistiti da alcuna garanzia, ai fondi Algebris e Cerberus). Perché allora si cerca insistentemente di far passare lo stato di difficoltà di alcuni istituti per una crisi sistemiche che necessiterebbe di soluzioni “di sistema”, possibilmente consistenti in un “intervento pubblico straordinario”, ossia fatto sulle spalle dei contribuenti?

Perché salvare “il sistema” significa salvare banche come Mps che probabilmente, ragiona Bolognini, con 21 miliardi di crediti deteriorati netti a fronte di un patrimonio netto di circa 9 miliardi di euro non passerà gli stress test Bce i cui risultati saranno resi noti il 29 luglio prossimo. Così facendo Mps (e gli altri istituti che non dovessero superare i test) incorrerebbero in pieno nelle regole sulla risoluzione bancaria, ossia si troverebbero nella condizione di dover applicare la regola del bail-in, con conseguente rischio di azzeramento o quasi del capitale per azionisti e obbligazionisti prima che lo stato sia autorizzato ad intervenire “facendosi carico” (ossia trasferendo l’onere ai contribuenti) della crisi.

Se questo succedesse si scoprirebbe che non meno di 60 mila piccoli risparmiatori hanno sottoscritto obbligazioni “junior”, quelle stesse che si è già scoperto erano state vendute, in alcuni casi con artifizi o metodi poco ortodossi (ad esempio legando l’acquisto di tali titoli alla concessione di crediti) ai clienti di Banca Etruria, di Popolare Vicentina o di Veneto Banca. Ma perché le banche non la smettono e non iniziano a cedere le proprie sofferenze sul mercato, visto che un mercato ormai esiste? Perché i prezzi non sono quelli necessari a evitare nuovi buchi in bilancio. E perché questo accade? Perché gli amministratori delle banche, espressione degli azionisti di controllo (Fondazioni in primis) hanno accantonato meno del necessario per coprire il rischio di perdita su crediti.

Perché hanno accantonato così poco? Per due motivi: primo, perché le banche italiane soffrono storicamente di una scarsa redditività, per cui alzare “troppo” gli accantonamenti voleva dire rinunciare a utili o addirittura dover chiedere ai soci di procedere a nuovi aumenti di capitale per ripianare le perdite; secondo, perché gli azionisti di controllo delle banche italiane spesso hanno un patrimonio eccessivamente concentrato in titoli delle banche medesime e soffrono a loro volta di scarsa redditività, dunque tendono a chiedere al management di distribuire la fetta maggiore di utili possibili. Utili che nel caso delle Fondazioni servono poi allo scopo statutario, ossia di “promozione del territorio” attraverso il sovvenzionamento di una serie di attività, spesso legate a doppio filo alla politica locale.

Ma come si è arrivati a concedere così malamente credito a soggetti che non sono poi stati in grado di restituirlo? In parte ha pesato la crisi, in parte la “cattiva ricetta” tedesca che ha voluto spingere a tutti i costi sul tasto dell’austerity fiscale, a detrimento della domanda interna. Ma la maggior parte dei crediti deteriorati nasce da situazioni in cui, semplicemente, il credito è stato fin dal principio erogato male, a processi del credito deboli, alla mancanza di valutazione dei rischi delle imprese (specie quando a chiedere prestiti erano imprese di grande dimensione), con fidi concessi senza o con ben poca analisi dei flussi di cassa e molto più i base all’amicizia e alla “conoscenza” del debitore, per non parlare della tendenza a finanziare quasi senza pensarci qualsiasi progetto immobiliare, anche quando si basava su valori rivelatisi  poi fuori mercato.

Insomma, dopo che già 7,5 miliardi sono stati “bruciati” dal sistema, ossia dalle banche più sane, per salvare le quattro banche risolte, finanziare il fondo Atlante (che ha poi salvato, rilevandole, Banca popolare di Vicenza e Veneto Banca) e il fondo iterbancario, su base volontaria, per intervenire riacquistando azioni di alcune casse di risparmio come quella di Cesena, il vero “rischio sistemico” è che per non far fallire istituti da anni mal gestiti si stia seriamente minando la redditività e la solidità patrimoniale degli istituti meglio gestiti. Ecco perché non tutti i matrimoni che anche il premier Matteo Renzi sembra pronto a benedire non sono una soluzione, ecco perché ulteriori fondi Atlante 2, 3 o 4 non serviranno, se prima non si cambierà il modo di fare banca e fare credito nel bel paese.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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