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Hikikomori, in Italia è boom degli adolescenti isolati: “La nostra vita chiusi in una stanza”

Il fenomeno, nato in Giappone, si è diffuso rapidamente in Occidente, e l’Italia è il Paese con il maggior numero di casi. Non escono di casa per decenni, sono completamente al buio e usano internet come unica finestra sul mondo esterno: “Rifiutano la società e le sue regole, e creano uno spazio in cui muoversi liberamente, senza vergognarsi del giudizio altrui”.
A cura di Ida Artiaco
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Sono prevalentemente ragazzi di età compresa tra i 14 e i 25 anni, che si recludono in casa, senza uscire a volte per decenni, vivendo spesso completamente al buio e affidandosi a Internet come unica finestra sul mondo esterno. Si chiamano Hikikomori (che significa letteralmente "isolarsi") e in Italia stanno diventando un vero e proprio esercito silenzioso. Si tratta di una moda scoppiata tra gli adolescenti giapponesi qualche anno fa, ma diffusasi rapidamente anche in Occidente, e il nostro Paese conta la più concentrazione di questi soggetti che esprimono, attraverso l'allontanamento dalla società, il proprio malessere. Secondo alcuni dati, che però non sono ufficiali, ne sarebbero più di settantamila.

"Non esco dalla mia stanza da 7 anni. Prima andavo a scuola, ma ora non ho più bisogno di uscire – ha raccontato un ragazzo Hikikomori ai microfoni di Fanpage.it -. Ho una ragazza, che ho conosciuto online. Ma non ho curiosità verso il mondo che c'è fuori, perché so che non mi interessa. Quello che ho vissuto l'ho vissuto e non mi è piaciuto". Dunque, si tratta di una sorta di rifiuto del mondo sociale, con le sue regole, le sue imposizioni e le aspettative che circolano intorno a ciascuno. Ma c'è dell'altro. Secondo Antonio Piotti, psicoterapeuta dell'Istituto Minotauro di Milano, "la loro difficoltà sta nel presentare il proprio corpo agli altri, nel sentire che il loro corpo è inadeguato. Non stiamo parlando dell'aspetto fisico in quanto tale, ma dell'immagine che uno ha di sé. Mentre la società del passato lavorava molto sulla colpa, quella di oggi lavora molto sulla vergogna. E in un momento delicato come l'adolescenza i ragazzi non ce la fanno a mantenere il ritmo, quindi si separano e si trovano uno spazio in cui possono muoversi liberamente, in cui non devono per l'appunto vergognarsi e non hanno più bisogno di nascondersi agli altri e a se stessi".

Non esistono dei sintomi ben definiti che presenta un ragazzo Hikikomori, ma il loro tratto distintivo è di certo il ritiro dal mondo. "La prima cosa che si avverte, però, è la fobia scolare – ha continuato Piotti ai microfoni di Fanpage.it -. Hanno delle crisi di ansia quando entrano in classe. Tramite il telefono o il computer possono entrare in Rete e conoscere un mondo nuovo, diverso da quello che vivono tutti i giorni. Non ne sono, però, dipendenti, ma ne sono affascinati. Inoltre, grazie a internet, riescono ad imparare un sacco, per cui non hanno tanto svantaggio culturale rispetto a chi ha terminato gli studi tradizionalmente. Nei casi più estremi evitano anche i contatti con la famiglia, in altri non escono dalla propria stanza neanche per mangiare, si fanno portare il cibo e stanno lì. Costruiscono una vita completamente solitaria".

Un ruolo da non sottovalutare è quello svolto proprio dalle famiglie di questi ragazzi. Non vi è un approccio giusto o sbagliato in queste situazioni, ma le esperienze sono innumerevoli. Una mamma, Annamaria, ha raccontato a Fanpage.it: "Noi non sapevamo come fare. Era davvero difficile rompere quel muro dove si era ritirato, il mondo reale non aveva più alcun interesse per mio figlio. Non accettava alcuna considerazione, non era possibile dirgli nulla, avere una conversazione". Secondo lo psicoterapeuta Piotti, in ogni caso non si tratta di un percorso breve: "C'è un approccio di tipo autoritario, per cui io ti costringo con la forza a uscire dalla rete. Ma invece di obbligare all'uscita, il punto è imparare a condividere la chiusura e fare piccoli passi verso l'esterno".

Su internet è nata anche una comunità di accoglienza chiamata Hikikomori Italia. Inizialmente, era stato concepito come un blog, ma col tempo, e con il crescere del fenomeno anche nel nostro Paese, ha realizzato vere e proprie campagne di sensibilizzazione sul tema, perché, come ha detto il fondatore, Marco Crepaldi, a Fanpage.it "non se ne parla molto e bisogna fornire aiuti concreti ai ragazzi, per fargli capire che non sono soli, ed anche ai loro genitori, che spesso si sentono impotenti davanti a questa condizione di malessere dei propri figli".

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