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Opinioni

È chi non si inginocchia che deve spiegare perché, non il contrario

Inginocchiarsi contro il razzismo non è una scelta che si deve spiegare, anzi. Sarebbe meglio che fosse chi non si inginocchia a spiegare perché lo fa. Non è un gesto politico, né un gesto conformista. È un piccolo gesto fatto davanti a milioni di persone, che lo rende improvvisamente grande. Si tratta di combattere una battaglia per i diritti civili nella quale siamo tutti coinvolti. I calciatori devono capire che sono seguiti da milioni di persone e smuovono l’opinione pubblica. Perciò non possono semplicemente autoassolversi o smarcarsi, ma spiegare il perché delle loro decisioni.
A cura di Tommaso Coluzzi
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Inginocchiarsi contro il razzismo è un gesto semplice, che non costa nulla e ha un enorme impatto simbolico. Oggi, mentre si discute sul perché determinati atleti si inginocchiano per manifestare solidarietà al movimento Black Lives Matter, non ci si chiede invece la cosa più importante: perché ci sono sportivi che non si inginocchiano? Che scelta personale dovrebbe essere quella di non inginocchiarsi? In un mondo sempre più dominato dalle immagini e dai gesti simbolici – per capirci, in un mondo in cui un calciatore sposta una bottiglia di Coca Cola e il titolo crolla in borsa – ogni fotografia che fa il giro del mondo con atleti inginocchiati contro il razzismo fa la sua parte in una battaglia civile che tutti dobbiamo combattere. Anche i calciatori della nazionale italiana.

Inginocchiarsi contro il razzismo dovrebbe essere un gesto universale che prescinde dalle idee politiche. Perché il razzismo non è un'idea politica, è solo un'idea sbagliata. E no, inginocchiarsi contro il razzismo non è nemmeno un gesto conformista, anzi. È, al contrario, una presa di posizione di cui abbiamo bisogno a livello universale. Non ci si può più nascondere dietro al dito del "non serve a niente" o "non cambia le cose". I piccoli gesti cambiano le cose, lo insegna la storia. Questo, tra l'altro, è un grande gesto, fatto davanti a milioni di persone che guardano la televisione. È un gesto chiaro, che ha un'origine e un'intenzione limpida. Chi non si inginocchia, invece, non sappiamo cosa voglia trasmettere, e resta in un'ambiguità assordante.

Gli atleti hanno cominciato a inginocchiarsi negli Stati Uniti alcuni anni fa, per protestare contro il razzismo e la violenza della polizia contro gli afroamericani. La protesta si è allargata, con la morte di George Floyd e l'onda di Black Lives Matter che dall'America è arrivata nel resto del mondo. Perciò oggi ci si inginocchia per far capire che, nelle battaglie civili, si è tutti uniti. Oggi ci si inginocchia per dimostrare di essere consapevoli dell'esistenza di problemi sociali come il razzismo e la disuguaglianza. Ci si inginocchia per dire io ci sono, io sono "woke". La nuova parola d'ordine dei progressisti che grammaticalmente è semplicemente il passato del verbo svegliare, ma simbolicamente assume tutto un altro significato. È il risveglio delle forze progressiste e di chi non vuole più tacere davanti ai grandi temi civili della nostra epoca.

Chi decide di non inginocchiarsi prende una posizione, non si può semplicemente assolvere pensando di non essere coinvolto. È troppo facile. Chi decide di non inginocchiarsi decide di non prendere posizione contro il razzismo e questo, nel 2021, è inaccettabile a tutti i livelli. Non ci si può semplicemente smarcare, per utilizzare un gergo adatto all'occasione. Soprattutto se a farlo sono figure che hanno milioni di persone che seguono ogni dettaglio della loro vita sportiva e non. Gli atleti sono personaggi pubblici, che hanno un impatto sulla vita delle persone e che influenzano l'opinione in una direzione o nell'altra ed è arrivato il momento di farci i conti, anche in Italia.

Bisogna uscire dallo stereotipo del calciatore ignorante e capire che, lo voglia o meno, smuove l'opinione pubblica. Lo fa spostando una bottiglietta della Coca Cola, lo fa indossando una fascia arcobaleno per i diritti Lgbt, lo fa prendendo una posizione. È un onore, ma anche una responsabilità. Negli Stati Uniti gli atleti prendono spesso posizioni importanti, per i diritti e per il sociale. Ma il modello non viene condiviso in Europa perché è più semplice per i giocatori, ma anche per chi li vuole vedere come degli uomini che sanno solo calciare un pallone. In questo senso il dibattito surreale tra Lebron James e Zlatan Ibrahimovic è esemplare.

È arrivato il momento di pretendere di più dai calciatori. Devono esporsi nelle battaglie per i diritti civili, come tutti e più di tutti, o spiegare se non lo fanno perché non lo fanno. E non devono essere sminuiti. Non può fare notizia il semplice fatto che Claudio Marchisio, ex calciatore sui generis nell'Italia di oggi tanto da essere diventato un papabile candidato sindaco, si sia esposto e abbia criticato la scelta di chi non si è inginocchiato. Dovrebbe essere la normalità. Come dovrebbe esserlo inginocchiarsi contro il razzismo, un gesto semplice che viene da lontano. Una battaglia di tutti, per i diritti di tutti.

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Giornalista, mi occupo di politica su Fanpage.it. Appassionato di temi noiosi, come le storie e i diritti degli ultimi: dai migranti ai giovani lavoratori sfruttati. Ho scritto "Il sound della frontiera", un libro sull'immaginario americano e la musica folk.
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