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Opinioni

Cosa c’entrano la crisi climatica e il riscaldamento globale con le tempeste di neve

Per quanto controintuitivo possa sembrare, la crisi climatica non sta aumentando solo gli incendi, gli episodi siccitosi e le ondate di calore, ma anche le tempeste di neve. E i fenomeni atmosferici estremi, come la tempesta di neve e ghiaccio che sta stringendo nella sua morsa gli Stati Uniti saranno sempre più frequenti.
A cura di Fabio Deotto
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“Gli Stati Uniti stanno letteralmente ghiacciando, altro che riscaldamento globale!”. È una battuta che viene facile, ma vi sconsiglio vivamente di pronunciarla ad alta voce. Un po’ perché ormai è vecchia, e un po’ perché, se i vostri interlocutori sono informati sulla questione climatica (e, statistiche alla mano, è sempre più probabile che lo siano), potrebbero scambiarvi per ignoranti.

Da più di una settimana gli Stati Uniti sono stretti nella morsa della più violenta e letale tempesta di neve degli ultimi 50 anni. In molte zone del Wyoming, del Michigan e dello stato di New York la situazione è tale che anche solo avventurarsi fuori casa può rivelarsi fatale: la neve ha cancellato le strade e uniformato il paesaggio in una landa di bianca desolazione, in alcune zone l’acqua ghiaccia non appena esce dai rubinetti e il conto delle vittime del gelo sale di giorno in giorno

Quest’anno è stato uno dei più caldi a memoria d’essere umano, e il fatto che si stia chiudendo con una tempesta di ghiaccio letale non è una contraddizione; per quanto controintuitivo possa sembrare, anzi, è un’ulteriore dimostrazione di quanto la crisi climatica stia rendendo meno prevedibile e gestibile il mondo in cui viviamo.

Le tempeste di neve saranno sempre più intense

Non è un caso che il frangente peggiore di questa tempesta epocale sia localizzato in corrispondenza della zona dei Grandi Laghi. Alla radice della tempesta che ha colpito la zona orientale degli Stati Uniti a partire dalla scorsa settimana c’è infatti un fenomeno chiamato Lake-effect snow, che si verifica quando grandi distese d’acqua vengono attraversate da una massa d’aria fredda: quello che succede è che l’acqua più calda di laghi e oceani evapora e viene raccolta dalla nube che poi la riversa in forma di neve su un terreno più freddo.

Se è vero che le temperature globali stanno aumentando, che gli inverni si stanno restringendo e che le precipitazioni nevose, in media, stanno diminuendo, è anche vero che un’atmosfera più calda è in grado di trattenere maggiore umidità (il 7% in più circa per ogni grado di riscaldamento globale); ciò si traduce in precipitazioni più intense e impredevedibili. Vale per la pioggia e dunque per le alluvioni, e nelle regioni in cui le temperature ancora scendono sotto lo zero, vale anche per la neve e le bufere come quella di questi giorni.

I fenomeni di Lake-effect snow non sono così rari, eppure la cosiddetta “snowpocalypse” statunitense è stata definita come un evento epocale. La colpa, con ogni probabilità, è dell’indebolimento del Vortice Polare, un’imponente struttura ciclonica che staziona in modo semi-permanente sopra la calotta artica. Ed è quel “semi-permanente” il problema, perché in corrispondenza di un riscaldamento anomalo della stratosfera il Vortice Polare può “fratturarsi” creando lobi discendenti che vanno a incidere sul tempo meteorologico di zone dell’emisfero boreale solitamente temperate.

Ed è quello che è successo a partire dallo scorso 22 dicembre: l’aria gelida del Vortice Polare è scesa a incontrare quella più calda degli USA orientali creando le condizioni per la formazione di quello che viene chiamato“ciclone bomba”: in meno di 24 ore la pressione è scesa da 1047 a 962 millibar, portando così alla rapida formazione di un ciclone molto potente, con venti fortissimi e temperature che in alcuni casi (come nella parte montuosa del Wyoming) sono scese fino a -57 gradi centigradi.

Non siamo (ancora) preparati a eventi di questo tipo

Una misura di quanto insolita sia stata questa tempesta di ghiaccio la possiamo trovare nella varietà e nella quantità di disagi che ha portato: migliaia di voli cancellati; decine di migliaia di abitazioni rimaste senza energia elettrica; tantissime persone intrappolate nella propria casa e impossibilitate a spostarsi; per non parlare di tutti i morti che la bufera ha lasciato a terra. Per quanto un evento simile fosse atteso (o comunque prevedibile) è chiaro che questa bufera ha colto le autorità e i cittadini impreparati. In parte per via dell’estrema rapidità con cui i venti si sono alzati e le temperature sono scese, in parte perché ancora non è in vigore un piano di adattamento per questo tipo di fenomeni.

Non a caso c’è chi sottolinea come molte delle 60 persone che hanno perso la vita nella tormenta avrebbero potuto salvarsi se fossero stati implementati sistemi di allarme e di soccorso adatti a una situazione simile: basti pensare che alcune persone sono morte mentre camminavano per strada (le temperature sono scese troppo in fretta perché potessero trovare riparo), altre sono svenute al volante, altre ancora sono morte in attesa di ambulanze ostacolate da un traffico che non si è riuscito a bloccare per tempo.

Bisogna tenere conto dell’errore umano, naturalmente, ma è evidente come manchi una visione d’insieme che tenga conto di come eventi meteorologici improvvisi e intensi come questo stiano progressivamente aumentando. E il discorso vale anche per tutti quei servizi che sono andati in tilt in questi giorni, a partire dal rifornimento energetico.

Se in questi giorni 80.000 diverse utenze in Texas sono rimaste senza corrente elettrica è anche per via di una rete elettrica spiccatamente centralizzata, dove un solo cedimento può compromettere l’approvvigionamento di intere zone. Per evitare situazioni come questa è fondamentale decentralizzare il sistema di produzione e distribuzione energetica, non solo operando una transizione da fonti centralizzabili (come i combustibili fossili) a fonti decentralizzabili (una su tutte il solare), ma anche predisponendo micro-reti elettriche periferiche che possano entrare in funzione per sopperire a problemi nella rete primaria.

Un cambio di sguardo faticoso

In questi giorni mi sono imbattuto in un pezzo del New York Times intitolato “Le bufere di neve sono colpa del riscaldamento globale”. A colpirmi non è stato tanto il titolo (se ne trovano ovunque di analoghi, ormai), quanto la data di pubblicazione: 14 gennaio 1996.

Insomma, sono quasi 30 anni che sappiamo (e scriviamo) che il riscaldamento globale ha una portata molto più estesa e variegata di quanto il suo nome potrebbe suggerire, eppure ancora facciamo fatica a interpretare questi eventi come parte di un solo mosaico. Non a caso, di fronte a quello che sta accadendo oggi negli Stati Uniti, molti ne stanno approfittando per provare a mettere in discussione l’esistenza della crisi climatica.

Come dicevo a inizio pezzo, è facile usare questa bufera come trampolino per fare battute sul riscaldamento globale, ma è ancora più facile bollare chi fa queste battute come un becero ignorante che non merita udienza. Il fatto è che prendere atto della complessità e delle interconnessioni della crisi climatica è un’operazione faticosa, dolorosa persino, perché richiede di mettere in discussione molti dei pilastri su cui abbiamo edificato la nostra civiltà (e dunque molte delle nostre certezze). Tantissime persone non vedono l’ora di trovare una ragione per schioccare le dita e svegliarsi dall’incubo soverchiante della crisi climatica; non vanno biasimate, vanno comprese. Perché è per via di questa speranza silenziosa che le risposte facili, anche quelle sbagliate, avranno sempre più presa di quelle complesse, ed è per questo che di fronte a battute e obiezioni di questo tipo occorre trovare la pazienza e la calma per condividere le informazioni che abbiamo.

Se infatti è facile chiudere una discussione squalificando preventivamente un interlocutore, è assai più difficile spiegare che sì, per quanto controintuitivo possa sembrare, la crisi climatica non sta aumentando solo gli incendi, gli episodi siccitosi e le ondate di calore, ma anche le tempeste di neve, come è assai più difficile spiegare che questi 1,2 gradi di riscaldamento stanno sbriciolando il nostro concetto di stazionarietà e normalità.

Per affrontare la crisi climatica è fondamentale che ci abituiamo alle risposte complesse: non solo a riceverle, anche a darle.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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