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Antonio Gramsci, la “nazione” di contadini ed operai

La riflessione di Antonio Gramsci sul concetto di nazione e sulla generazione formatasi dopo quella dei grandi ideali ottocenteschi che avevano portato all’Unità d’Italia.
A cura di Nadia Vitali
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Non è facile scrivere di una figura di intellettuale complessa come quella di Antonio Gramsci, che merita un posto d'eccezione fra le storie di Noi Italiani; la prima tentazione sarebbe quella di indugiare sul racconto della sua vita. Un'esistenza segnata fin dalla più tenera età dalla malattia, dalla sofferenza, dagli stenti e dalla privazione e, a fronte di tutto questo, un'infinita volontà, di quelle che raramente vengono fuori e che stupiscono, soprattutto i giovani come me che di gente disposta a sacrificarsi effettivamente ne vedono sempre meno. Un uomo che non si è risparmiato, Antonio Gramsci e a cui, di contro, la sorte non ha proprio voluto risparmiare nulla. In primo luogo un italiano, nel senso più fiero che può esprimere questa parola, quando pensiamo ai nostri poveri ed umili nonni che hanno lavorato per produrre quella ricchezza di cui oggi possiamo ancora, minimamente, cercare di godere; Gramsci, uno studente povero in canna della Sardegna che vince una borsa di studio per l'università di Torino, dove va a vivere per studiare, vivendo di stenti e avvicinandosi al socialismo, comprendendone a fondo principi e spinte ideali, fino a ripensarne fini e contenuti in modo organico e complessivo.

L'esperienza di Gramsci da italiano, il suo sentire in merito, emerge soprattutto dalla sua riflessione sistematica sul concetto di nazione e di identità nazionale a cui dedica tanta parte della propria opera: un’identità in cui nazionale non coincide con popolare, frutto di una rivoluzione borghese quale fu il Risorgimento che non vide, tra i suoi promotori, personaggi come coloro i quali avevano dato vita alla Rivoluzione francese: in questo contesto, dunque,  la classe dirigente piemontese fu quella che impose il proprio modello e, dunque, la propria egemonia. Al contempo, quella che costituiva la classe subalterna, a parer di Gramsci (parere su cui il tempo avrebbe dato irrimediabilmente ragione) non risultava unita nella propria diversità: proletariato urbano, piccola borghesia e classe contadina non si sentivano accomunati dalla condivisione della medesima coscienza di classe.

Gramsci fu il primo ad intuire che il messaggio di fratellanza ed internazionalismo rischiava di essere schiacciato da altri e ben più aggressivi "assiomi", specie in un paese come l’Italia la cui classe dirigente aveva recepito confusamente i grandi ideali nazionalistici borghesi (che ne avevano creato l’unione, con il trasporto e il sacrificio di quanti, idealisticamente, vedevano in quella dell’Unità semplicemente una giusta causa e non un mero interesse). Un nazionalismo spurio, trasformarsi nel giro di qualche decennio in una ideologia aggressiva, conservatrice e, per certi aspetti razzista, nutritasi dell’esperienza della I guerra mondiale e, ancor prima, della campagna di Libia promossa da Giolitti e che spianerà la strada all'avvento dell'autoritarismo fascista.

La lungimiranza delle sue riflessioni in merito sarà, negli anni del dopoguerra, un punto di riferimento irrinunciabile per il PCI, nella scoperta e nella valorizzazione delle classi subalterne. Gramsci influenzerà tantissimo soprattutto  il mondo culturale, se si pensa alla riscoperta delle singole identità regionali tanto promossa dagli studi etnoantropologici che si concentreranno, principalmente, nel Sud Italia sotto l’egida di Ernesto De Martino; ma anche alla riscoperta e alla valorizzazione, a livello più popolare, di quello che sarebbe stato definito folklore.

Antonio Gramsci fu, dunque, il primo ad intuire quanto la nuova generazione nata dalla guerra avesse una concezione dello Stato come qualcosa di distante, lontano e quasi nebuloso ma, purtroppo, “capace di orientare tante vite, tanta parte di futuro”: in questo senso suo grande merito fu quello di aver compreso come l’idea “internazionale” del socialismo fosse solo con grande difficoltà adattabile al tessuto sociale italiano. A dimostrazione di tutto questo la storia letteraria italiana fornisce un esempio costante, con i suoi intellettuali, da sempre legati a doppio filo con la classe dominante e lontani anni luce dalla gente comune: per questa ragione la nascita della letteratura popolare, dal romanzo d'appendice fino alle sue più alte manifestazioni, che tanto avrebbe influito in altri paesi d’Europa, in Italia non ebbe luogo. I poveri contadini di Alessandro Manzoni, lo scrittore più autorevole, studiato e popolare d’Italia, secondo Gramsci sono dei personaggi stereotipati, sulle cui emozioni l’autore poco o niente si sofferma, a differenza di quanto accade, ad esempio in Francia con Victor Hugo ed Honoré de Balzac oppure in Russia con Fedor Dostoevskij e Lev Tolstoj; essi non hanno una personalità profonda e strutturata e, questo, sebbene Manzoni si mostri assolutamente benevolo verso di loro, adottando un atteggiamento, in definitiva, cattolico.

Nel ricordare i 150 anni della nostra nazione, dunque, non possiamo non ricordare l'essenziale lezione di questo grande intellettuale le cui riflessioni ed analisi, ci parlano ancora e ci dicono molto di noi, della nostra identità, del nostro passato; e la cui vita ci regala ancora oggi la testimonianza di un intellettuale che non si piega al regime ed alla tirannia, sostenuto dalla forza dei suoi ideali e della sua dignità.

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