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Se una camicia diventa strumento di emancipazione femminile in “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi

Il film campione d’incassi di Paola Cortellesi racconta anche la centralità degli abiti nell’emancipazione delle donne, ora come nel 1946.
A cura di Arianna Colzi
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Paola Cortellesi in C'è ancora domani | Foto Claudio Iannone
Paola Cortellesi in C'è ancora domani | Foto Claudio Iannone

Tutti parlano di C'è ancora domani. Chiunque elogia (a ragion veduta) il debutto alla regia di Paola Cortellesi. Un film che racconta una storia semplice, rifacendosi alle radici neorealista del cinema italiano. Delia (Paola Cortellesi) è la figura femminile attorno alla quale ruotano le vicende della sua famiglia composta da Ivano (Valerio Mastandrea), il marito, la figlia adolescente Marcella (Romana Maggiora Vergano) e altri due figli maschi. Un affresco sull'Italia com'era una volta e una retrospettiva sulle violenze, le ingiustizie e le disparità che le donne italiane si trovavano a dover subire ogni giorno. E che, purtroppo, devono subire ancora oggi.

Gli abiti delle donne nel film di Paola Cortellesi

La forza del film di Cortellesi risiede nella semplicità universale del messaggio e nella capacità della regista di trasformarlo in un viatico potente di emozioni. Una semplicità priva di retorica che ha conquistato una fetta di pubblico così eterogenea da diventare il film italiano più visto dell'anno. C'è un aspetto, però, che è stato poco notato, ma che ha permesso a Paola Cortellesi di rendere ancora più vero e deciso il messaggio che voleva comunicare e ha a che fare con il significato e la potenza dei costumi.

Una scena di C'è ancora domani | Foto Claudio Iannone
Una scena di C'è ancora domani | Foto Claudio Iannone

Delia è una donna del 1946, aggredita fisicamente e verbalmente dal marito Ivano. Una violenza giustificata con un laconico "sai sta nervoso, ha fatto du guere…" e fortemente criticata dalla figlia adolescente Marcella, anche lei prossima al matrimonio. Costretta a dipendere economicamente dal marito, Delia svolge i piccoli lavoretti che, ottant'anni fa, le donne facevano per contribuire al bilancio famigliare: fa le punture a casa degli anziani, stende le lenzuola a casa dei ricchi signori e cuce e ripara abiti per una piccola sartoria.

Emanuela Fanelli e Paola Cortellesi | Claudio Iannone
Emanuela Fanelli e Paola Cortellesi | Claudio Iannone

I risparmi per comprare l'abito di nozze

Al contrario, lei indossa abiti consunti, rammendati, come la camicetta che porta quando vengono a pranzo i futuri consuoceri con il fidanzato della figlia Marcella. Tutti i suoi risparmi però sono destinati a un abito simbolo: l'abito di nozze per la figlia. L'importanza di questo gesto non risiede solo nel voler comprare un abito con i soldi da lei guadagnati, ma anche nel desiderio di dare alla figlia un futuro nuovo, migliore di quello da cui Delia non riesce a fuggire. Dunque, il tradizionale abito bianco non è più solo un indumento ma diventa un ponte tra generazioni. La voglia di un vestito nuovo di zecca, e non ereditato usato dalla madre, si trasforma in un anelito verso una vanità che a Delia non è stata concessa.

La camicetta scelta per votare il 2 giugno c'è ancora domani costumi
La camicetta scelta per votare il 2 giugno c'è ancora domani costumi

La camicetta per il 2 giugno

Nella Roma che si prepara alle prime elezioni a suffragio universale della sua storia, quelle per l'Assemblea Costituente e il referendum istituzionale, Delia cerca di evadere dall'oppressione quotidiana. Se il film sembra suggerire un finale, è la Storia a dettare il naturale epilogo. La liberazione, almeno simbolica di Delia si realizza anche attraverso una camicetta a fiori.

Un fermo immagine del film di Paola Cortellesi
Un fermo immagine del film di Paola Cortellesi

A pochi minuti dalla fine del film vediamo Delia piegata sulla macchina da cucito intenta a realizzare una camicetta, dopo aver comprato uno scampolo di tessuto con i pochi risparmi che riesce a nascondere al marito violento. Sarà (anche) quella blusa un po' sgualcita a segnare il suo affrancarsi dall'oppressione politica e sociale che la circonda. Il 2 e 3 giugno si tengono le votazioni per il referendum istituzionale e fuori dal seggio di Testaccio, dove la serie è ambientata e girata, c'è una folla di donne e tra loro c'è Delia con il cosiddetto "vestito buono della domenica".

L'emancipazione del voto

La sua emancipazione, la rivendicazione della sua identità, del suo diritto a esistere passa attraverso come Delia sceglie di apparire agli occhi del mondo. La protagonista si prepara per il suo primo voto come avrebbe fatto per la messa della domenica (uno delle poche occasioni "mondane" per le donne dell'epoca). Indossa il rossetto rosso – che al seggio dovrà togliere per evitare "riconoscimenti" sulle schede -, simbolo di una femminilità non più repressa ma ostentata.

Paola Cortellesi dietro la macchina da presa con indosso la camicia di scena
Paola Cortellesi dietro la macchina da presa con indosso la camicia di scena

Lo stesso vale per la camicetta che, nel suo essere un indumento semplice, è il metro con cui misurare l'importanza del momento. Un traguardo da celebrare anche con i costumi, quello del primo voto alle donne, a dimostrazione del fatto che la moda, gli abiti siano stati e siano ancora uno strumento identitario, anche nel nostro quotidiano. Il voto, oggi come allora, ha reso donne come Delia, come tutte noi, libere di poter esprimere finalmente la nostra voce. Ma è e sarà sempre una comune camicetta a portare il nostro Io quotidiano in quel seggio.

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