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Modelle reclutate nei campi profughi africani: come le agenzie sfruttano la povertà promettendo illusioni

Secondo un’inchiesta del Sunday Times, le agenzie di moda sfruttano ragazze dei campo profughi, promettendo loro approdo definitivo ad una vita migliore.
A cura di Arianna Colzi
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Nel mondo della moda si continua a parlare di inclusività, che si sta trasformando sempre più spesso in un'utopia. Anzi, troppo spesso la marginalità in cui vivono certe persone viene sfruttata a scopo di profitto. È il caso sollevato da un'inchiesta esclusiva del Sunday Times, giornale britannico, che ha scoperto come le modelle dei Paesi africani vengano sfruttate dal mondo della moda. L'inchiesta si è concentrata su Kakuma, in Kenya, un campo profughi, dove le ragazze vengono reclutate per sfilare in Europa, solo con la promessa di un futuro migliore che non si realizzerà: anzi, ritornano in Africa senza essere riuscite ad aggiudicarsi un lavoro.

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Il falso mito di un futuro migliore: così le agenzie di scouting promettono un futuro che non c'è

Negli ultimi decenni l'illusione di una carriera nel mondo della moda ha nutrito giovani ragazze africane, anche nel segno di alcune storie di successo come quelle di Alek Wek e di Adut Akech. Nell'articolo uscito nell'edizione domenicale del Times, vengono intervistate decine di modelle cresciute nel mito di Akech, sudanese fuggita dal Paese d'origine per rifugiarsi in Inghilterra: da lì ha iniziato a sfilare per  grandi Maison come Dior, Valentino e Saint Laurent. In realtà la storia della giovane sudanese è un unicum che viene sfruttato dalle agenzie locali per fare leva sulle ragazze africane. Nell'inchiesta del Times, Carol White, ex agente di Naomi Campbell lascia trapelare il lato discriminatorio e pregiudiziale del sistema moda, di cui non si parla mai abbastanza, ma che gioca un ruolo centrale nella vita di persone che vivono in condizioni di vita difficili: "Al momento è molto di moda avere una modella africana. È così prolifica la richiesta di modelli africani: donne, uomini, ragazzi e ragazze".

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Ad aggravare la situazione contribuisce il desiderio delle case di moda di apparire inclusive, delegando tutto a enti locali che non controllano. Se il brand vuole una modella africana per una sfilata o una campagna, non supervisiona l'iter che la ragazza segue per essere ingaggiata e non si cura che riceva effettivamente uno stipendio adeguato: la retribuzione, infatti, è sempre e comunque in capo alle agenzie di scouting. Per capire quanto questo sia deleterio nel contesto africano, dobbiamo anche comprendere il contesto del campo rifugiati di Kakuma, in Kenya.

La vita al campo rifugiati di Kakuma

La maggior parte degli abitanti del campo rifugiati kenyano provengono dal Sudan e dalla Somalia, due dei Paesi più poveri al mondo. Il campo si trova nel nord del Paese, vicino al confine con il Sudan. L'area accoglie circa 200mila persone, 50mila in più rispetto a quanto consentito, provocando un peggioramento drastico delle condizioni igieniche e alimentari. Tutto questo influisce sulle vite di chi popola il campo, persone che già partono da una condizione di sofferenza. La condizione delle donne è ancora più gravosa: non solo non ricevono un'istruzione di base, ma sono spesso vittime di maltrattamenti e matrimoni forzati, come riporta l'UNHCR.

Il campo profughi di Kakuma | Foto UNHCR
Il campo profughi di Kakuma | Foto UNHCR

Come vengono reclutate le modelle

Ma come funziona l'iter di selezione? I talent scout africani fanno spesso visita al campo in cerca di volti che possano piacere ai grandi brand. Facendo leva sull'ingenuità e le condizioni di vita precarie delle giovani, i recruiter promettono alle future modelle un futuro di certezze radiose lontano da fame e povertà. I volti più interessanti superano i casting e le agenzie locali pagano loro i documenti necessari sia per uscire dal campo profughi, sia per lavorare all'estero.  Come racconta il Sunday Times, alle future modelle viene pagato anche un biglietto aereo per una capitale europea, oltre ad una piccola somma di denaro per i pasti: tutti i soldi che le ragazze dovranno restituire, anche se non otterranno alcun casting e dunque nessun introito. Da qui in poi i racconti dei capi delle agenzie e le dichiarazioni delle ragazze iniziano a divergere. Il quotidiano britannico riporta pareri di numerosi talent scout che sostengono di presentare il trasferimento come un fatto temporaneo e non permanente.

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Le giovani ragazze, invece, raccontano come in fase di recruiting l'Europa venga presentata come una terra promessa a cui approdare in modo definitivo senza rivelare loro due particolari importanti. Il primo riguarda il passaporto e il volo: l'agenzia anticipa solo i soldi, che dovranno essere restituiti dalle modelle dopo i primi lavori. Il secondo riguarda la permanenza: se non si è ingaggiate in un certo numero di casting, le modelle vengono rimandate in Kenya dopo il servizio per le quali sono state reclutate. Dunque si torna al campo rifugiati anche con un debito, perché i soldi dei documenti devono essere comunque restituiti.

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Di fatto, quindi, si sfruttano l'ingenuità e le terribili condizioni di vita per cercare di trovare un volto che possa piacere o funzionare con le Maison. L'idea di offrire a giovani ragazze che vivono in un campo profughi una vita migliore non è di per sé sbagliato, ma come dice una delle modelle intervistate: "Se il mondo vuole modelle dai campi profughi, dovrebbe prendersene cura. Non siamo spazzatura, siamo esseri umani".

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