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Opinioni

La grande truffa di Banksy e della street art capitalista

Come un sedicente street artist inglese è riuscito a vendere la propria parodia sociale al mondo senza distinzioni di ceto, razza, cultura ma soprattutto reddito. Esentasse.
A cura di Maria Acciaro
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“The World of Banksy”, la mostra alla Stazione Centrale di Milano dell’anonimo street artist britannico, non ha niente a che fare con la street art, ma ricorda più un comunicato stampa istituzionale sulla critica istituzionale. Un po’ come quando i brand di moda si appropriano dei linguaggi tipici delle subculture giovanili per vendere a cinquecento euro delle felpe i cui costi di produzione si aggirano intorno ai dieci. “The World of Banksy”, visitabile fino al 27 febbraio, è una mostra blockbuster. Segue quella inaugurata a Roma al Chiostro del Bramante nel maggio 2021. Tutti luoghi di prestigio o di passaggio. Istituzionali, per l’appunto.

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L’esposizione di Milano si apre con un murales con la scritta No Future, che ricorda la celeberrima versione dei Sex Pistols dell’inno nazionale britannico, God Save the Queen. Il testo è piuttosto esplicito: "God save the Queen. The fascist regime. They made you a moron (…) No future, no future, no future for you". I Sex Pistols erano una band creata a tavolino, come molto probabilmente lo è Banksy. Il cantante, Johnny Rotten, a un certo punto ha anche concorso alla carica di sindaco di Londra. Come i Sex Pistols criticavano l’establishment pubblicando con una major, allo stesso modo Banksy critica un sistema culturale ed economico di cui è senza dubbio l’esponente più controverso.

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Banksy è un artista che critica la mercificazione dell’arte mercificando l’arte stessa e, se per realizzare la mostra di un qualsiasi pittore o scultore è necessario un investimento economico ingente, quantomeno per la movimentazione delle opere, quelle di Banksy possono essere riprodotte da un anonimo allestitore che probabilmente guadagna 8 euro l’ora. Il biglietto d’ingresso costa 16 euro e, in una domenica di gennaio, la fila per accedere alla mostra era lunghissima. Considerando che la maggior parte delle opere è stata prodotta in situ, deduco che i costi di produzione della mostra siano simili a quelli delle felpe delle multinazionali di moda tipo LVMH o Kering e il ricavato altrettanto ingente. Ottimo lavoro, ma per chi?

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A un certo punto della mostra c’è un cartello che parla dell’arte contemporanea come di un settore per bambini ricchi e viziati o per poveri disadattati. Se i secondi accettano volentieri di sborsare 12 euro per assistere a questa stupefacente critica al sistema capitalistico contemporaneo, in che modo l’arte di Banksy si relaziona al primo gruppo d’individui? Ovvero ai cosiddetti “ricchi e viziati”?

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Prendiamo il caso di Maurizio Fabris, un broker finanziario londinese. Un interessante articolo di Scilla Alecci pubblicato sul sito dell’International Consortium of Investigative Journalists racconta di come nel 2016 i Panama Papers hanno dimostrato che, a partire dal 2009, il broker ha utilizzato un fondo offshore per acquistare più di una dozzina di pezzi di Banksy, inclusi gli iconici "Girl with Balloon", "Flower Thrower" e due versioni di "Rude Copper", opera che ritrae un agente di polizia mentre mostra il dito medio allo spettatore. Fabris ha firmato un contratto con i gestori del trust, che gli ha permesso di esporre le opere di Banksy nelle sue case di Milano, Londra, Ibiza e Courmayeur. I trust sono comunemente utilizzati per ridurre o evitare le tasse sulla proprietà. Quello di Fabris ha poi venduto tre delle opere di Banksy a una galleria londinese gestita dall'ex agente di Banksy. Alla fine del 2012, i trust manager di Fabris hanno venduto la versione di "Girl with Balloon" e poi altri due pezzi di Banksy per 423.000 dollari, registrando un profitto complessivo di 91.000 dollari. Esentasse. I registri che descrivono in dettaglio le transazioni di Banksy sono stati divulgati dai Pandora Papers.

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Quindi è a questo che si riferisce il No Future all’ingresso della mostra? L’arte è diventato un asset popolare nel mondo offshore, con opere scambiati da società di comodo e trust il cui fine ultimo è quello di evitare la tassazione sui beni. Attraverso il suo avvocato, Fabris ha affermato di aver scelto le opere di Banksy "per la capacità dell'artista di affrontare temi socio-politici con straordinaria efficacia". Il broker è stato accusato di evasione fiscale nel 2015, dopo di che il trust ha trasferito la proprietà di una dozzina di opere d'arte detenute nel fondo a Fabris stesso. Sette dei pezzi trasferiti erano di Banksy. Uno aveva un semplice messaggio dipinto a lettere maiuscole: "Abandon Hope".

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Perché in fondo cosa ci comunica la mostra di Banksy? Che il mondo fa schifo e che un signor nessuno, letteralmente, può vendere a 500.000 sterline un’opera realizzata nottetempo sulla porta di un club di Bristol in difficoltà per sanare le finanze dello stesso club. O che può realizzare un’opera da un milione sulla porta di uno strip club di proprietà di un editore milionario che, nel giro di qualche ora, verrà rimossa dalla strada e diventerà di proprietà dello stesso editore milionario proprietario dello strip club. O che l’unico insegnamento lasciato ai posteri da Madre Teresa di Calcutta è la necessità di usare la crema idratante per evitare le rughe impietose che hanno afflitto la santa sin dalla mezza età. E i visitatori devono anche sborsare 12 euro per vedere queste opere che un installer ha realizzato al posto del celeberrimo, presunto artista britannico.

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Ecco, “The World of Banksy”, come d’altronde tutta l’opera di Banksy, a me sembra una grande presa per i fondelli, e di pessimo gusto. Di pessimo gusto per l’allestimento delle opere, infilate una dopo l’altra che neanche al reparto formaggi dell’Esselunga. Di pessimo gusto per le didascalie, didascaliche come i foglietti illustrativi degli analgesici generici. Di pessimo gusto per il contenuto, una serie di luoghi comuni rappresentati con la raffinatezza pittorica di un miope prossimo alla cecità. Di pessimo gusto per il contenuto concettuale: una serie di banalità sui fatti di cronaca e gli abusi di potere perpetrati da un’entità indefinita che afferma il suo potere economico a colpi di aste da Sotheby’s e speculazioni offshore.

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La street art esposta tra quattro mura, qualsiasi esse siano, è una forzatura, un’antitesi, un ossimoro. Dovrebbe avere un altro nome. Non può essere venduta e nessuno dovrebbe mai pagare un biglietto per vederla. Perché se l’arte di Banksy avesse l’obbiettivo di cambiare davvero le cose sarebbe illegale, come i graffiti. Quelli veri.

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Maria Acciaro è un editor che ha scritto di arte e cultura contemporanea, con un focus sulla tecnologia, per numerose testate, tra cui Esquire e The Vision.
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