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Maschi contro femmine: il dualismo di genere (barocco) nell’arte di Artemisia Gentileschi

Artemisia Gentileschi è stata rivalutata dalla storia dell’arte recente più per la sua vita che per le sue opere. La narrazione che circonda la pittrice barocca è intrisa del vuoto moralismo che circonda la sessualità femminile e ne oscura il dirompente talento. Nel giorno in cui si celebrano le donne, una celebrazione dell’opera di una pittrice la cui maestria è tale in quanto tale, non in quanto donna.
A cura di Maria Acciaro
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La mostra "Caravaggio ed Artemisia, La Sfida di Giuditta" a palazzo Barberini
La mostra "Caravaggio ed Artemisia, La Sfida di Giuditta" a palazzo Barberini

Fino al 27 marzo 2022 è possibile vistare a Roma, a Palazzo Barberini, la mostra “Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta. Violenza e seduzione nella pittura tra Cinquecento e Seicento”. Quello che, a prima vista, può apparire come un omaggio a una grande pittrice, relegata a un ruolo minore dalla storia dell’arte, e conseguentemente un’esposizione di matrice “femminista” è, già dal titolo, l’emblema di tutto ciò che non va nel “femminismo” contemporaneo.

Artemisia Gentileschi (Roma 1593 – Napoli 1656) è considerata una pittrice di scuola caravaggesca, perseguitata per l’intera esistenza da un episodio di violenza sessuale che la obbligherà, in vita, a dipingere episodi dell’Antico Testamento e presunte eroine bibliche a volte seminude, altre riccamente abbigliate, a seconda della committente e delle circostanze. Il tema della seduzione associato al riscatto appare evidente sin dal titolo e, ancora una volta, l’artista è presentata in relazione a un ben più noto e acclamato pittore del suo tempo, Caravaggio.

La mostra "Caravaggio ed Artemisia, La Sfida di Giuditta" a palazzo Barberini
La mostra "Caravaggio ed Artemisia, La Sfida di Giuditta" a palazzo Barberini

Digitando Artemisia Gentileschi su Google – piattaforma che le ha dedicato nel 2020 un’enorme retrospettiva digitale in collaborazione con il MET di New York, la National Gallery di Londra e il Museo di Capodimonte di Napoli, tra gli altri – la maggior parte dei risultati di ricerca che la riguardano vertono intorno alla violenza sessuale subita nel 1611 a opera di Agostino Tassi, un virtuoso del trompe-l'œil a cui il padre l’aveva affidata per imparare il mestiere. Violenza messa in atto con la collaborazione di un furiere e della donna di servizio della ragazza. Il processo che ne conseguì fu intriso di calunnie, perizie mediche al limite del sadismo e dall’atroce tortura della sibilla. Vinto il processo de iure, quindi senza alcuna conseguenza effettiva per l’aggressore, Artemisia fu costretta a sposarsi con un pittore mediocre da cui ebbe quattro figli e che ne dilapidò la fortuna a causa dello stile di vita lussuoso. Da quel momento, la pittrice fu oggetto di scherno mediante un’impressionante quantità di sonetti licenziosi che la videro protagonista.

Fin qui niente di nuovo. Potremmo riportare qui i sonetti, le deposizioni scabrose del processo e tutto il resto, ma il vero problema della storia di Artemisia Gentileschi – o perlomeno della narrazione contemporanea della sua storia – è l’importanza data dai posteri a questo triste evento, non solo dal punto di vista biografico, quasi agiografico data la quantità di umiliazioni e torti che la pittrice è stata costretta a subire, ma soprattutto dalle tematiche formali che è stata costretta a eseguire in vita a opera dei suoi committenti e dallo scarso valore associato al suo talento. Come se la sua biografia avesse fagocitato la sua opera. Anche un miope, vedendo la Giuditta e Oloferne di Artemisia Gentileschi e quella di Caravaggio a confronto, non potrebbe non notare l’evidente superiorità artistica della prima, ma procediamo per gradi.

La mostra "Caravaggio ed Artemisia, La Sfida di Giuditta" a palazzo Barberini
La mostra "Caravaggio ed Artemisia, La Sfida di Giuditta" a palazzo Barberini

Uno dei primi dipinti di Artemisia Gentileschi passati alla storia è Susanna e i vecchioni, realizzato a soli 17 anni e attribuito al padre a causa della maestria con cui è stata realizzata l’opera, talento stupefacente per una diciassettenne. Il soggetto di Susanna e i vecchioni è narrato nel Libro di Daniele. Susanna, sorpresa da due anziani in bagno, è sottoposta a un ricatto sessuale: può sottostare alle loro voglie o i due racconteranno al marito di averla sorpresa con un giovane amante. Susanna accetta l'umiliazione di un’accusa ingiusta. Sarà Daniele a smascherare la bugia dei due laidi anziani. Secondo alcuni studiosi, che privilegiavano la biografia rispetto alle qualità artistiche della pittrice, è stata la stessa Artemisia a realizzare il dipinto come simbolo dell’oppressione subita ad opera del padre e del suo futuro stupratore, Agostino Tassi. Le rappresentazioni di questo episodio biblico dagli evidenti intenti moralistici, all’epoca in realtà era un pretesto per possedere un soggetto di nudo femminile in un’epoca in cui non esistevano i porno ed è probabile che sia stato il padre Orazio o lo stesso Tassi a suggerire il soggetto alla giovane pittrice. Si pensa infatti che uno dei due uomini rappresentati sia lo stesso Tassi, in quanto la figura maschile appare troppo giovane per essere considerata quella di un vecchio.

La mostra "Caravaggio ed Artemisia, La Sfida di Giuditta" a palazzo Barberini
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Ma passiamo ora a uno dei soggetti più iconici nella carriera della Gentileschi, Giuditta con la testa di Oloferne. Giuditta è un personaggio biblico il cui nome rappresenta la forma femminile di Giuda. Pur essendo considerata un’eroina ebraica, il libro che ne narra le gesta è escluso dal canone della Religione Ebraica, ma è accettato dalla Chiesa Cattolica e da quella Ortodossa a cui, si sa, l’immaginario femminile truce piace se connesso al sangue e al martirio delle sante o alla seduzione delle meretrici. E la biografia di Artemisia la colloca, suo malgrado, nel secondo gruppo, ovvero quello della Maddalena, una discepola calunniata e annichilita al grado di prostituta per aver visto per prima la presunta resurrezione del Cristo. Nel caso della Gentileschi, le sue colpe sono state il suo palese talento e la sua evidente avvenenza, che la portarono a rappresentare se stessa, forse in seguito alle richieste della committenza, nei panni della stessa Giuditta.

La mostra "Caravaggio ed Artemisia, La Sfida di Giuditta" a palazzo Barberini
La mostra "Caravaggio ed Artemisia, La Sfida di Giuditta" a palazzo Barberini

Il mito narra che Giuditta liberò la sua città assediata dagli Assiri grazie alla sua bellezza, di cui s’ivaghì il generale Oloferne che la trattenne con sé al banchetto. Vistolo ubriaco, Giuditta gli tagliò la testa con la sua stessa spada. Gli Assiri, trovato morto il loro condottiero, furono presi dal panico e messi in fuga dai Giudei. Artemisia fu la prima a rappresentare una Giuditta non più giovanissima – a differenza di quella dipinta da Caravaggio – come nel dipinto Giuditta decapita Oloferne, realizzato nel 1620 e conservato a Firenze alla Galleria degli Uffizi, in cui l’eroina si allontana dalla testa mozzata per non sporcarsi le lussureggianti vesti; oppure nel dipinto che vede Giuditta intenta a dirigere e difendere la sua ancella (1618–1619 circa), in cui le due donne si muovono all’unisono: l'ancella inginocchiata avvolge la testa di Oloferne mentre Giuditta è intenta a nascondere la spada con cui ha ucciso il nemico, oscurandosi il volto dal lume della candela prima dell’imminente fuga.

La mostra "Caravaggio ed Artemisia, La Sfida di Giuditta" a palazzo Barberini
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Il personaggio di Giuditta è presente anche nel Paradiso di Dante, nel Canto XXXII. San Bernardo inizia a spiegare al Sommo Poeta la disposizione dei beati nella rosa celeste. Eva occupa il seggio ai piedi di Maria. Nel terzo ordine dei seggi si trova Rachele, al di sotto di Eva e accanto a Beatrice e più in basso Sara, Rebecca, Giuditta e Ruth. Altre donne ebree sedute più in basso costituiscono una linea di demarcazione: da un lato, dove il fiore è completo di tutti i suoi petali, siedono coloro che credevano nel Cristo venturo, ossia nella futura venuta del Messia; dall'altro lato, in cui alcuni posti sono vuoti, le donne che hanno avuto fede in Cristo venuto, ossia in Gesù.

La mostra "Caravaggio ed Artemisia, La Sfida di Giuditta" a palazzo Barberini
La mostra "Caravaggio ed Artemisia, La Sfida di Giuditta" a palazzo Barberini

Le rappresentazioni della Gentileschi, in realtà, più che alla sua biografia si rifanno a una più generale visione dell’arte come espressione della Controriforma seguita al Concilio di Trento (1545). All’epoca, l’Europa era divisa dalle Guerre di religione e l’arte truce e violenta della Gentileschi altro non era che una rappresentazione dell’assolutismo politico imperante. Martirio, visione, estasi e morte erano una conseguenza delle costrizioni imposte da norme assolute e limitanti. La visione dualistica del mondo, tipica della religione cattolica che vede contrapporsi razionalità e sensibilità, maschile e femminile, apollineo e dionisiaco, appare qui al suo apice.

In questo marasma di categorizzazioni dualistiche e totalizzanti, la figura standardizzata di Artemisia Gentileschi appare più simile a quella del demone ebraico Lilith, la prima compagna di Adamo, creata prima di Eva, simbolo del femminile che non si assoggetta al maschile e associata al desiderio e alla lussuria. La narrazione stereotipata della biografia di Artemisia Gentileschi e dello stupro che subì è l’emblema di tutto ciò che non va nel femminismo contemporaneo, che implica una visione dualistica e falsata dei generi, paragonabile a quella che seguì la Controriforma e che vide la donna in perenne antagonismo con l’uomo.

Il quinto libro de La Repubblica di Platone discute sul ruolo femminile: "I cani sono divisi in maschi e femmine, ma forse essi invece condividono altrettanto le loro funzioni sia nella caccia e nel mantenere i cuccioli e negli altri doveri de cani? O facciamo affidamento al maschio per l'intera ed esclusiva cura della prole, mentre lasciamo le femmine in casa, con l'idea che la loro opera sui neonati ancora lattanti sia sufficiente?”. Secondo La Repubblica, le donne nello Stato ideale dovrebbero lavorare a fianco degli uomini, ricevere la stessa educazione e condividere le stesse responsabilità in tutti i settori statali, fatta eccezione per quelli che richiedono una maggiore forza fisica. L’antagonismo tra uomo e donna che caratterizza il “femminismo” contemporaneo è un retaggio prettamente cattolico e conseguentemente patriarcale.

Artemisia viaggiò molto nella sua vita. Il suo soggiorno a Firenze fu fecondo. Nel 1638 fu costretta ad andare controvoglia a Londra presso la corte di Carlo I a trovare il padre, divenuto pittore di Corte. Dato che un rifiuto, all’epoca, non era contemplabile, continuò a lavorare presso la suddetta corte anche dopo la morte del padre. La città in cui ebbe modo di cimentarsi in soggetti meno biblici e più “mainstream” per l’epoca fu però Napoli, dove spesso riceveva committenze prestigiose da mecenati illustri come Filippo IV di Spagna.

Artemisia Gentileschi morì a Napoli nel 1656 e fu sepolta nella Chiesa di San Giovanni Battista dei Fiorentini, sotto una lapide che recitava due parole «Heic Artemisia», senza il cognome. Durante il prosieguo della lavori di costruzione del nuovo Rione Carità, promosso dalla giunta di Achille Lauro, la Chiesa non fu inclusa nei lavori di ricostruzione fascista della zona e venne demolita nel 1952, a causa dei presunti ma mai avvenuti bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, come documentano le fotografie dell’epoca. Questa decisione causò la scomparsa dei resti della pittrice. Al posto della Chiesa fu eretto Palazzo Fernandez, storica sede della Standa.

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