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Processo sulla morte di Stefano Cucchi

Stefano Cucchi, vittima di un reato ancora senza colpevoli

Prosciolti definitivamente i tre agenti della polizia penitenziaria, tre infermieri del “Pertini” e un sesto medico. Ci sarà invece un appello-bis per omicidio colposo per i ‘camici bianchi’ indagati. Così ha deciso la Corte di Cassazione.
A cura di Claudia Torrisi
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UPDATE – Ore 22.35 – Assolti agenti carcerari. Appello bis per i medici – Sono state accolte le richieste del procuratore generale Rossi: c'è il sì definitivo all'assoluzione delle tre guardie carcerarie già scagionate in appello. Così anche per tre infermieri del "Pertini" e un sesto medico. Assecondata anche la decisione dell'annullamento con rinvio a un nuovo procedimento dei sanitari. Si torna quindi in Corte d'assise d'appello, che dovrà riesaminare, solo per l'accusa di omicidio colposo, la responsabilità del primario del reparto protetto dell'ospedale capitolino, Aldo Fierro e quella dei medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis e Silvia Di Carlo.

Update ore 14.40 – Il procuratore generale della Cassazione Nello Rossi durante l'udienza di questa mattina ha chiesto l’annullamento con rinvio dell’assoluzione di cinque medici dell'ospedale prosciolti in appello. Per Aldo Fierro, Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis e Silvia Di Carlo è stato chiesto un nuovo processo. Resta confermata invece l’assoluzione di un sesto medico, Rosita Caponetti. Secondo Rossi, i referti all'ingresso di Cucchi al Pertini "devono essere considerati come un capitolo clamoroso della sciatteria e trascuratezza della assistenza riservata a Cucchi al Pertini". Rossi ha invece chiesto la conferma dell'assoluzione dei tre agenti di polizia penitenziaria Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici. Al termine della requisitoria, l'avvocato della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, ha annunciato la rinuncia al ricorso presentato contro l'assoluzione in appello di tre agenti: "Prendiamo atto dell'avvio di una indagine della Procura di Roma finalizzata all'individuazione dei responsabili di quello che la stessa procura non esita a definire ‘un violentissimo pestaggio'".

Ci sono immagini che è sempre difficile guardare, che disturbano anche se le vedi cento volte su giornali, media e tv. Le foto di Stefano Cucchi con il volto tumefatto, scheletrico, le orbite schiacciate e di colore violaceo fanno parte di questa categoria. Oggi la vicenda del geometra romano è arrivata davanti alla V sezione penale della Corte di Cassazione, che dovrà decidere se confermare o meno la sentenza di assoluzione di secondo grado per tutti gli imputati: sei medici, tre infermieri e tre agenti della penitenziaria. Il procuratore generale della Cassazione Nello Rossi ha chiesto nella sua requisitoria che venga confermata l'assoluzione dei tre agenti di polizia penitenziaria, pronunciata in appello. La vicenda processuale è iniziata a gennaio 2011, tra 45 udienze, 120 testimoni, decine di consulenti e perizie.

Il 15 ottobre 2009 Stefano Cucchi viene arrestato a Roma, vicino al parco degli Acquedotti, in via Lemonia. I carabinieri lo trovano in possesso di alcuni grammi di hashish e cocaina. Durante la notte i militari lo accompagnano a casa e perquisiscono la sua stanza in sua presenza. Non trovano nulla di rilevante e portano Stefano nella caserma Appio-Claudio, dove lo chiudono in una cella di sicurezza. Come ha ricostruito Giovanni Bianconi sul Corriere, quel giorno i carabinieri scrivono sul verbale che si tratta di un "albanese senza fissa dimora": "Il verbalizzante aveva utilizzato, sul computer, il modello riempito in precedenza con i dati di un albanese, senza preoccuparsi di modificarli: una sciatteria che ebbe conseguenze fin dalla mattina successiva, visto che il giudice che convalidò l’arresto negò i domiciliari per la ‘mancanza di una fissa dimora risultante con certezza dagli atti'". Non solo: ma nello stesso documento si scrive che "il prevenuto, interpellato, dichiara di non voler dare notizia del suo avvenuto arresto ai propri familiari", quando in realtà ai genitori il fermo era stato comunicato in diretta.

La mattina successiva Cucchi si presenta in aula per il processo per direttissima. Non riesce a camminare bene, ha difficoltà a parlare e ha evidenti ematomi all'altezza degli occhi. Secondo l'accusa, Stefano è stato picchiato selvaggiamente quella notte. Un pestaggio che testimonierà di aver sentito anche un detenuto del Gambia, Samura Yaya, che si trovava a due celle di distanza. Il giudice però sembra non notare i problemi del ragazzo, l'arresto viene convalidato e, nell'attesa di una nuova udienza, Stefano viene rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Le sue condizioni, però, peggiorano e viene trasportato all'ospedale Fatebenefratelli per essere visitato. Verrà dimesso con una diagnosi di "frattura del corpo vertebrale L3 dell'emisoma sinistro e frattura I° vertebra coccigea". Alcuni referti diranno in seguito che era "caduto dalle scale". Stefano rifiuta il ricovero e inizia un viavai tra il carcere e l'ospedale. Durante tutto questo tempo ai genitori viene impedito di vedere il figlio e al ragazzo di parlare con il suo avvocato. Viene ricoverato nel reparto penitenziario dell'ospedale Sandro Pertini, dove muore nelle prime ore del 22 ottobre, a quasi una settimana dal suo arresto, pesando 37 chili, disidratato, con il volto livido. Poche ore prima, il direttore del reparto, Aldo Fierro, scrive una lettera al magistrato per avvertirlo del "disagio a gestire le condizioni cliniche del detenuto". Secondo Carlo Giovanardi, intervenuto pochi giorni dopo, Cucchi era morto perché "la droga ha devastato la sua vita, era anoressico, tossicodipendente (…) Sono migliaia le persone che si riducono in situazioni drammatiche per la droga, diventano larve, diventano zombie: è la droga che li riduce così". Nei giorni successivi la famiglia inizia a rendere pubbliche alcune foto del cadavere decisamente inequivocabili. Sebastiano Ardita, magistrato al momento responsabile della direzione generale detenuti, scrive che Cucchi è morto "in modo disumano e degradante."

Il 25 gennaio del 2011 vengono rinviate a giudizio dodici persone: sei medici del Pertini – Aldo Fierro, Stefania Corvi, Rosita Caponetti, Flaminia Bruno, Luigi Preite De Marchis e Silvia Di Carlo – tre infermieri – Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe – e tre guardie carcerarie, Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici. I Pm incaricano come consulente medico legale il dottor Paolo Albarello che nella sua perizia afferma che Stefano non è morto per i numerosi traumi sul corpo né per disidratazione, ma per negligenze dei medici, per "carenze assistenziali". Quanto alle lesioni, sarebbero tipiche di una "caduta da seduto". Contro questa ricostruzione la famiglia ha presentato un esposto. La perizia della consulenza di parte civile, invece, parla di botte e responsabilità di medici e sanitari nel non aver vigilato abbastanza sullo stato di salute del ragazzo. In primo grado vengono condannati quattro medici del Pertini a un anno e quattro mesi, il primario a due anni di reclusione per omicidio colposo, un medico a 8 mesi per falso ideologico. Tutti con pena sospesa. Vengono assolti invece i tre infermieri e le tre guardie carcerarie.

Il 31 ottobre 2014, la Corte d’Appello di Roma assolve tutti gli imputati per insufficienza di prove. Per la madre di Stefano è una "sentenza assurda. Mio figlio è morto ancora una volta". Poco dopo, il sindacato di polizia Sap esprime "soddisfazione per le assoluzioni": "Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze. Senza che siano altri, medici, infermieri o poliziotti in questo caso, ad essere puniti per colpe non proprie".

In ogni caso, nelle motivazioni della sentenza si legge chiaramente: "le lesioni subite dal Cucchi debbono essere necessariamente collegate a un'azione di percosse; e comunque da un'azione volontaria" e "non può essere definita una ‘astratta congettura' l'ipotesi prospettata in primo grado, secondo cui l'azione violenta sarebbe stata commessa dai carabinieri che lo hanno avuto in custodia nella fase successiva alla perquisizione domiciliare". Viene aperta un'inchiesta bis, da cui emergono circostanze importanti. Come quella di una tac manomessa per far scomparire le tracce di una frattura sul corpo di Cucchi o incongruenze tra le dichiarazioni degli agenti. Il 10 settembre del 2015 viene iscritto nel registro degli indagati un carabiniere per falsa testimonianza, un maresciallo la cui deposizione contro medici e agenti della polizia penitenziaria risulterebbe in contrasto con i fatti accertati dai pm. Alla fine gli indagati diventano cinque: Francesco Tedesco, Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo, Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini, tre per lesioni aggravate e due per falsa testimonianza. La sorella di Stefano, Ilaria, consegna in procura una nuova consulenza medica per cui le fratture e le lesioni sul corpo di Stefano sono recenti, tra i 7 e i 15 giorni prima della morte. Un fatto rilevante, se si considera che prima di essere arrestato, Cucchi era appena uscito dalla palestra. Ma dall'inchiesta bis è emerso di più. Secondo alcune deposizioni e intercettazioni dei carabinieri Cucchi sarebbe stato "massacrato di botte". L'ex moglie di un militare ha raccontato:

"Ricordo che Raffaele mi parlò di un violento calcio che uno di loro aveva sferrato al Cucchi. Preciso che Raffaele raccontava che il calcio fu sferrato proprio per provocare la caduta. Quando Raffaele raccontava queste cose rideva, e davanti ai miei rimproveri, rispondeva ‘Chill è sulu nu drogatu è merda'. Gliene abbiamo date tante a quel drogato".

I pm romani hanno formulato una richiesta al gip per una nuova perizia medico legale sulle lesioni.

Oggi è attesa la sentenza della Cassazione. Il procuratore generale Rossi ha chiesto di confermare l'assoluzione per gli agenti della polizia penitenziaria perché gli elementi contro i tre agenti sarebbero insufficienti. Nella requisitoria ha evidenziato che "sono molti gli elementi che ci fanno capire che c'è stata una azione violenta prima dell'ingresso nei sotterranei di piazzale Clodio". "Non c'è alcun dubbio di natura oggettiva – ha aggiunto – che le violenze subite da Stefano Cucchi sono state poste in essere in un arco di tempo che va dalla perquisizione notturna a casa dei genitori di Cucchi alla fine della sua permanenza a piazzale Clodio per la convalida del suo arresto". La morte di Stefano è stato "un fatto di eccezionale gravità" perché "è sempre, dico ‘sempre', stato nella custodia di uomini appartenenti a corpi dello Stato che legittimamente lo avevano arrestato e ne avevano limitato la libertà ma che proprio in ragione di questo potere avevano l'assoluto dovere di custodirne l'integrità fisica e di rispettarne la dignità".

Se i giudici confermassero il secondo grado, sarebbe "uno schiaffo alla giustizia", ha detto il padre di Stefano, entrando in tribunale. Per Ilaria il fratello "è stato torturato", e ha proposto di intitolargli la legge. Anche secondo un'indagine medica indipendente presentata da Medu – Medici per i diritti umani ciò che ha patito Cucchi configura "un vero e proprio caso di tortura": "Le violenze subite da Stefano sono state il primum movens che ha portato a una sequenza di eventi patogeni terminata solo con il decesso del paziente". L'aggressione subita da Cucchi "è stata un atto mediante il quale sono stati inflitti alla vittima gravi dolori e severe sofferenze, trattamenti crudeli ed inumani secondo i criteri di riferimento della Convenzione delle Nazioni Unite". Un reato che, ancora non esiste nel nostro ordinamento. Anche in un nuovo processo, quindi, nessuno potrebbe essere punito per aver torturato fino alla morte Stefano Cucchi.

La proposta di legge sull'introduzione del reato di tortura non ha mai avuto grande fortuna nel nostro paese. Il testo è stato approvato dalla Camera in tutta fretta il 9 aprile 2015, due giorni dopo che la Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato l'Italia per il massacro della scuola Diaz durante il G8 di Genova. Poi il percorso si è arenato. E questo nonostante numerosi appelli e il concreto di rischio di nuove condanne in sede europea. La società civile continua a spingere per la legge, anche se ci sono diverse perplessità sul testo, che nel frattempo è stato oggetto, come sostiene Susanna Marietti, di "un'estenuante e intollerabile palleggio parlamentare" e poco risponderebbe alla Convenzione delle Nazioni Unite. Dal canto loro, sindacati di polizia e alcune forze politiche hanno fortemente osteggiato la proposta. A Roma a giugno è andato in scena il "No T-Day" organizzato dal Sap contro l'introduzione del reato, durante il quale il segretario della Lega Nord Matteo Salvini ha pronunciato la frase "Se un delinquente si fa male, cazzi suoi".

A dispetto della sua formulazione originaria, il testo qualifica la tortura come reato "comune" – che può essere commesso da chiunque – e non "proprio", cioè tipico dei pubblici ufficiali. Poi è sparita la condizione di privazione della libertà come aspetto rilevante ed è stato introdotto un dolo specifico – "ottenere informazioni o dichiarazioni o infliggere una punizione o vincere una resistenza, ovvero in ragione dell’appartenenza etnica, dell’orientamento sessuale o delle opinioni politiche o religiose". Come scrive il senatore Luigi Manconi, però, "dobbiamo sapere che se questo disegno di legge non venisse approvato così com’è oggi, è altamente probabile che per i prossimi cinque anni, e forse più, il reato di tortura rimarrà fuori dal nostro ordinamento. La scelta è, dunque, questa. E non ammette vie di fuga. Dobbiamo sapere, insomma, che o verrà approvata questa legge nella sua attuale e mediocre formulazione o non verrà approvata, per un periodo probabilmente assai lungo, alcuna legge". Qualche giorno fa, il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella sul Manifesto ha denunciato la scomparsa dai lavori parlamentari della proposta di legge che criminalizza la tortura: "Non c’è traccia all’ordine del giorno della Commissione Giustizia del Senato". E questo accade a pochi giorni dalla dichiarazione di ammissibilità del ricorso di due detenuti sottoposti a torture nel carcere di Asti da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo. In quell'occasione è stata tortura, e il ministero della Giustizia ha offerto un risarcimento di circa 40 mila euro ciascuno ai due ex detenuti per revocare la causa davanti alla Cedu. Sostanzialmente, un'ammissione di responsabilità. Un modo per chiudere la faccenda pagando, piuttosto che ricevere una nuova condanna e approvare una legge che questo paese e tutti i casi Cucchi che è stato capace di creare aspettano da tempo.

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