
Quanto ha contato Antonio Conte in questo Scudetto del Napoli? Tutto, tanto, il giusto. Ci si scervellerà ancora per settimane intorno all’importanza di un allenatore che è arrivato a Napoli senza obblighi impossibili (ritornare in Champions League era alla portata) e ha convinto tutti sulla possibilità di raggiungere lo Scudetto, senza mai nominarlo, giornata dopo giornata. Chi è convinto che Conte sia l’artefice numero uno di questa vittoria grida ad alta voce una parola che a Napoli è pane e sangue in nome del Santo: miracolo!
Mettersi d’accordo sul concetto di miracolo, nel calcio oltretutto, non è facile. L’idea che Conte sia andato al di sopra di ogni legge naturale, vincendo uno Scudetto con una rosa “normale” e per di più perdendo a gennaio il suo miglior calciatore può essere giusta. Il Napoli di Conte è la prima squadra nella storia della serie A a vincere il campionato indebolendosi in corso d’opera. Qualcosa di incredibile in effetti c’è. Ma per Tommaso d’Aquino esistono anche i miracoli dentro la natura, idea ripresa poi da filosofi contemporanei, come Simone Weil, per cui i miracoli sono esperienze soggettive di apertura a qualcosa di più grande, di spirituale. Da questa prospettiva è forse più chiaro quello che Conte ha acceso, dando fin da subito la speranza a una comunità composta da calciatori in primo luogo, ma anche da tanti addetti ai lavori e tifosi.

Antonio Conte è un meraviglioso ingegnere del calcio. Non vince con idee rivoluzionarie e ardite, come i grandi architetti calcistici nella storia, ma lo fa perché ricostruisce da fondamenta già esistenti, seguendo i lavori in cantiere attimo per attimo. Nella sua carriera ha spesso seguito la stessa traiettoria. Ha preso squadre sconvolte da una nuova medietà (tranne la Nazionale italiana che era in quel momento una squadra anche al di sotto della medietà) e le ha riportate in cima. Lo ha fatto con la Juve che non vinceva nulla da prima di Calciopoli, con il Chelsea che veniva da una stagione deludente con la coppia Mourinho prima e Hiddink poi in panchina, lo ha fatto con l’Inter che non vinceva lo Scudetto da dieci anni. Conte viene, aggiusta e…
Negli anni intorno all’allenatore leccese alcune keywords sono sempre state collegate: applicazione, intensità e anche in questo caso si è mosso sulle onde di un altro grande filosofo contemporaneo, Gilles Deleuze, per cui l’intensità, proprio come fa Conte con le sue squadre, è un cambiamento di stato, un’emozione pura e una tensione nel reale, capace di modificare il valore della squadra stessa.
Poche volte, se non mai, a Conte è stato però legato il termine flessibilità, mentre quest’anno ha dovuto viverla e sperimentarla in prima persona. L’idea di inizio anno era chiara fin dalla seconda partita (prima partita veramente disastrosa a Verona con la quasi sicurezza da parte di tutti di dimissioni imminenti. Questo memo serve anche per capire da dove si era partiti), ovvero giocare a 4 in difesa, puntando molto sulla solidità di Rrahmani-Buongiorno al centro, per dare invece maggiore libertà ai laterali, Di Lorenzo e Olivera, di appoggiare la manovra. Il centrocampo riprendeva le idee spallettiane: Lobotka in regia, Anguissa e McTominay mezzali capaci di imporsi fisicamente sugli avversari e il tridente, Politano a soffrire e dare sempre l’apertura a destra, Lukaku centravanti pieno e vero e Kvaratskhelia motore creativo della squadra. Tutto doveva andare così ma a gennaio il georgiano va via, si iniziano a infortunare i difensori, non vengono comprati sostituti e Conte inventa la prima volta McTominay sotto punta, per forzare al massimo al centro grazie alla coppia di “mammoni” formata dallo scozzese e Lukaku, poi svaria sul 3-5-2, per proteggere una squadra che concedeva troppo e infine, rispolverando il più in forma in rosa in quel momento, Raspadori, va sul 4-4-2.

Ogni scelta ha portato risultati, punti e fiducia, perché “essere trasformazione”, come scriveva Rainer Maria Rilke, aiuta a muoversi e ha fatto bene a una squadra ormai ferma dopo lo Scudetto di due anni fa. Mentre Conte provava a vincere uno Scudetto in una piazza che nella sua storia ne aveva vinti soltanto tre (quindi si può serenamente accantonare l’idea di abitudine al palcoscenico), con una rosa ridotta all’osso, lo faceva oltretutto mentre tutti guardavano e parlavano quasi esclusivamente di lui, consegnandogli un peso esagerato. Ancora oggi molti (se non tutti) non scrivono “il Napoli”, ma “la squadra di Conte”, come se fosse una dopolavoristica aziendale. Conte era al centro di tutto e il connettore di ogni sensazione, bella o brutta che fosse. Una persona normale, come noi, sarebbe scappata con il primo treno, gli allenatori solamente bravi avrebbero urlato di disperazione o sorriso di “nervatura”, Conte ha corso in avanti, curandosi poco o nulla delle chiacchiere e mostrando un traguardo.
Un allenatore così lascia quello che ha costruito e potrebbe rilanciare, ma qui viene il difficile. Se Conte porta la medietà all’eccellenza e spesso alla vittoria, poi vuole rilanciare fortissimo, chiedendo moltissimo e forse troppo, almeno per i presidenti che lo hanno avuto. Chissà se resterà sulla panchina del Napoli o tornerà dove anche la medietà è ritornata, la Juve, ma questo Scudetto da lui firmato resterà il suo miracolo.