Mangone: “Nella festa Scudetto a Roma successe di tutto. La Polizia disse: non garantiamo la sicurezza”

C’è un momento preciso in cui Amedeo Mangone torna indietro nel tempo. Non alza la voce, non cerca l’effetto: semplicemente ricostruisce. La giornata libera dagli allenamenti, il telefono che diventa una macchina del tempo. Treviglio, Serie D, una squadra giovane da educare prima ancora che da allenare. Poi, senza soluzione di continuità, l'oratorio, le giovanili nel Milan, Bari, Bologna, Brescia e Roma.
Mangone parla di calcio come si parla di un mestiere imparato sul campo, senza scorciatoie e senza rimpianti. Racconta lo Scudetto del 2000-2001 con la Magica come una consapevolezza che cresce partita dopo partita, non come un colpo di fortuna. Ricorda allenatori diversi e uomini veri, la fatica di stare in un gruppo pieno di campioni e l’importanza di chi gioca meno ma tiene alta l’intensità.
L'ex difensore a Fanpage.it quando racconta non corre, cammina. E mentre cammina, spiega perché per lui il calcio, ieri come oggi, comincia sempre da una cosa semplice e difficilissima: saper giocare a pallone.
Cosa fa oggi Amedeo Mangone?
"Sono l'allenatore della Trevigliese in Serie D. Sono arrivato da sette partite: due vittorie, due pareggi e tre sconfitte, contro squadre di vertice. È un campionato impegnativo, soprattutto perché lavoriamo con una rosa molto giovane. I vincoli sugli Under ti obbligano non solo ad allenare, ma anche a insegnare e ad avere pazienza: gli errori fanno parte del percorso".

Il suo passaggio in panchina è stato naturale o maturato col tempo?
"È stato successivo. Dopo aver smesso di giocare ho fatto i corsi quasi per curiosità, poi ho iniziato ad allenare i bambini nel mio paese, Carugate. Mi sono divertito e da lì è arrivata l’occasione con il settore giovanile del Pro Patria. Il salto in prima squadra è arrivato presto, quasi per caso".
Oggi si parla molto di giovani: vede differenze tra la sua generazione e quella attuale?
"Sì, soprattutto sul piano tecnico. Nei settori giovanili di una volta si lavorava tantissimo sul gesto tecnico, pochissimo sulla tattica. Oggi spesso è il contrario. Capisco le difficoltà degli allenatori, ma se non insegni a stoppare, dribblare, tirare, poi restano solo cavalli che corrono".
Mangone è cresciuto nella Primavera del Milan ma senza esordire in prima squadra: quanto ha pesato la formazione a Milanello?
"Molto. Mi ha formato come uomo prima ancora che come calciatore: disciplina, rispetto, educazione. Dal punto di vista tecnico mi ha dato una base che mi ha permesso di andare subito in C2 senza obbligo giovani".

Dal dilettantismo alla Serie A: quanto è stato importante il salto a Bari?
"Fondamentale. Passare dalla C2 alla Serie B e vincere subito il campionato è stato incredibile. Era una squadra giovane ma costruita bene, con Materazzi che ci ha protetti e responsabilizzati".
Poi il passaggio al Bologna: quanto è stato decisivo Renzo Ulivieri nella sua evoluzione da marcatore a difensore a zona?
"Con Ulivieri ho imparato davvero il calcio a zona, la lettura delle situazioni, il gioco di reparto. Mi ha fatto crescere tantissimo. A Bologna ho avuto continuità e consapevolezza".
La semifinale di Coppa UEFA col Marsiglia resta una ferita aperta con la rissa e tutto il resto: che ricordo si porta di quella serata?
"Sì, con Mazzone sfiorammo l'impresa. Io venni squalificato per 5 giornate ma tutto nacque per un equivoco. Abbiamo sfiorato un sogno. La rissa è stata ingigantita: eravamo andati solo a chiedere rispetto sotto la curva. Purtroppo sono arrivate squalifiche pesanti e poi loro giocarono contro il Parma senza giocatori molto forti come Dugarry, Ravanelli, Luccin e Gallas".
Mangone lavorò con Mazzone a Brescia qualche anno dopo…
"Si fu un breve periodo, di sei mesi, e andai lì solo per Mazzone. Giocai al fianco di talenti come Guardiola e Baggio in un ambiente appassionato e con una città che ci stava molto vicino. Vivemmo un momento tragico come la morte di Vittorio Mero che fu un colpo durissimo per società e tifosi. Nonostante sia stata una delle esperienza più brevi mi trovai benissimo e spesso ci incontriamo ancora con i ragazzi di quella squadra".
Ha parlato benissimo di tre allenatori che oggi non vengono ricordati spesso: Materazzi, Ulivieri e Mazzone. Ci racconta qualcosa di loro?
"Nutro un immenso rispetto per tutti e tre, perché hanno sempre mostrato qualità professionali e umane fuori dal comune. Con Materazzi mi trovai benissimo per la sua capacità di proteggere i giovani giocatori e creare un ambiente positivo. Di Ulivieri ho apprezzato per le sue intuizioni tattiche e come mi ha permesso di cresce sia all'interno della squadra che individualmente. Di Carlo Mazzone ho ammirato per la sua incredibile personalità, la schiettezza, l'onestà e la continua innovazione tattica. Tutti e tre erano ‘persone vere' che mi hanno lasciato un segno duraturo".

Il passaggio alla Roma e lo Scudetto del 2000-2001: che esperienza è stata far parte di un gruppo così vincente?
"Pressione enorme. Roma ti esalta e ti distrugge in una settimana. Con Capello le aspettative sono cambiate: bisognava vincere. Lo Scudetto è stato un capolavoro collettivo".
Lei giocò meno rispetto all'anno precedente, ma rimase centrale nel gruppo…
"Chi giocò meno fu fondamentale lo stesso per alzare il livello degli allenamenti, tenere alta la tensione. Capello pretendeva intensità massima sempre: quella difesa era formata da gente del calibro di Samuel, Zago, Zebina, Aldair…".
Quando avete capito davvero che lo Scudetto era possibile?
"A Parma, vittoria con doppietta di Batistuta; e il pareggio a Torino con la Juventus, quando eravamo sotto 2-0 dopo l'intervallo. Lì abbiamo capito di essere forti davvero".

Si parla spesso di quella festa Scudetto al Circo Massimo ma chi non è tifoso della Roma non sa di cosa si parla…
"Si può definire particolare o atipica perché organizzata quasi due settimane dopo la partita del trionfo. Se ci pensi non c'è un'immagine completa di una squadra, molti stranieri non c’erano più e tanti erano già in vacanza. Avremmo dovuto festeggiare subito dopo Roma-Parma ma la polizia ci disse che non sarebbe stata in grado di garantire la sicurezza per la sera stessa perché, non essendoci la matematica, non c'era nulla di programmato. Quindi tutto venne rimandato. Dopo la festa nello spogliatoio dello stadio ci incontrammo in un locale e festeggiammo tra noi ma è successo un po' di tutto: ogni tanto dovevamo cambiare perché i tifosi venivano a sapere dove eravamo e si accalcavano fuori dai locali".
Per Mangone l’ultima vera tappa della carriera è stata Piacenza…
"Sì, sono stato anche capitano. Una società seria, poi arrivarono le difficoltà economiche. Già lì avevo in mente di chiudere ma andai a Catanzaro perché mi chiamò Cagni. ‘Mi vieni a dare una mano? Dai, sono 4 mesi'. In realtà avevo già deciso di smettere".
C’è una scelta che non rifarebbe?
"No. Ho sempre deciso con lucidità. Mi è andata bene, ho vissuto esperienze incredibili e non ho rimpianti".