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Luciano Zauri: “Con Mihajlovic scommettevamo il pieno della Ferrari. Maldini mi fece restare muto”

Luciano Zauri ripercorre la sua carriera e la sua storia nel calcio: dalle origini a Pescina alla Nazionale, passando dalle maglie di Atalanta, Lazio, Fiorentina e Sampdoria, tra aneddoti con Mihajlovic, Maldini e Cassano, fino al presente da allenatore a Campobasso.
A cura di Sergio Stanco
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Ogni giocatore ha un momento da “sliding doors”: “Cosa sarebbe successo se…?”. Se avessi accettato quell’offerta, se non mi fossi infortunato, se non avessi fatto quella pazzia… Gli episodi che possono cambiare una carriera sono infiniti. E tutti hanno il proprio rimpianto. O quasi tutti. Già, perché Luciano Zauri, ex difensore/centrocampista (che forse varrebbe la pena definire jolly) di Atalanta, Lazio, Fiorentina e Sampdoria (tra le altre), è uno dei pochi che non ha rimpianti: “A me il calcio ha dato più di quanto potessi immaginare – racconta a Fanpage.it – Sono partito da un paesino di 5mila anime in provincia dell’Aquila (Pescina, n.d.r.) e sono arrivato a vestire la maglia della Nazionale. Ma cosa potevo chiedere di più alla mia carriera? Te lo dico io: nulla!”. E, adesso, Luciano è pronto per un altro ruolo nel calcio, che spera possa essere altrettanto pregno di successi. Dopo aver iniziato sulle panchine delle giovanili di Pescara e Bologna, oggi allena il Campobasso, per altro con ottimi risultati: “Questa piazza è veramente calda, si merita di sognare”. Con Luciano, però, facciamo un viaggio nei ricordi, con aneddoti imperdibili e protagonisti indimenticabili e indimenticati, come Mihajlovic, Maldini, Cassano e molti altri…

Visto che hai citato tu le tue origini, partiamo da quello: quanto è stato difficile emergere dalla provincia?
“Per me è stato tutto naturale, anzi, probabilmente mi ha agevolato. Ho avuto la fortuna di crescere in un paesino a misura d’uomo, dove tutto scorre tranquillo e nessuno ti mette pressione. Mia mamma era casalinga e mio papà idraulico, dunque nulla a che vedere con il calcio e non erano nemmeno troppo appassionati. Sono cresciuto giocando in strada tutto il giorno e, anzi, i miei genitori non erano nemmeno toppo convinti quando ho chiesto di entrare nella squadra del paese. Pur di non farmi giocare a calcio, mi mandavano a lezioni di fisarmonica (ride, n.d.r.)”.

E, poi, cos’è successo? Come ti sei ritrovato a Bergamo nelle giovanili dell’Atalanta?
“Nel modo più classico, ho fatto un provino a 12 anni e sono stato scelto. È stato un po’ uno shock per tutti, perché nessuno se lo immaginava. E trasferirsi a quell’età, devo essere sincero, non è stato per nulla semplice. All’inizio è stato difficile lasciare gli affetti e gli amici. Io sono sempre stato molto legato al mio paese di origine ed è stata dura poter tornare solo tre-quattro volte all’anno. Ricordo che a volte mio papà faceva da navetta e mi portava avanti-indietro in giornata pur di farmi passare la nostalgia (sorride, n.d.r.)”.

Luciano Zauri ai tempi dell’Atalanta.
Luciano Zauri ai tempi dell’Atalanta.

Lasciar partire un figlio a 12 anni, e assecondarlo nel suo sogno, non deve essere stato facile…
“Per nulla, te lo posso assicurare. Poi, come dicevo in precedenza, i miei genitori erano piuttosto scettici, avrebbero preferito che facessi altro. Non come quelli di oggi per cui i propri figli sono tutti fuoriclasse e li spingono a giocare a calcio nella speranza che salvino la loro esistenza, non capendo che – così facendo – creano soltanto troppe aspettative nei ragazzi e rischiano di creare dei falliti a 18 anni. Io ho un figlio tredicenne che gioca nelle giovanili della Lazio e quello a cui assisto ogni partita o ogni allenamento è davvero qualcosa di indecente. Mio papà non è mai mancato ad un allenamento o ad una partita importante, ma sempre un passo indietro. Mi hanno sempre insegnato il rispetto di tutti e non si sono mai intromessi, tanto meno si sono mai sognati di andare a parlare con l’allenatore o offenderlo dalle tribune. Ora, invece, basta una partita in panchina e si scatena il putiferio…”.

Sarà stata comunque un’emozione grande per loro veder diventare il proprio figlio calciatore professionista…
“Sicuramente sì, ma il tutto vissuto sempre con estrema umiltà, come d’altronde ho fatto io. Ho sempre saputo di non essere un fenomeno e tutto quello che ho ottenuto me lo sono dovuto sudare con il lavoro. Ricordo l’esordio in Serie A, neanche il tempo di entrare e Totti ha segnato su punizione (ride, n.d.r.). Quella partita è finita 0-4 per la Roma e quindi c’era poco da festeggiare, per noi però è stata un’emozione unica”.

Ti sei fatto un regalo per l’occasione?
“In quel momento no, ma quando ho firmato il primo vero contratto importante, l’ho fatto alla mia famiglia. Loro mi avevano seguito a Bergamo un paio d’anni dopo il mio trasferimento nel settore giovanile dell’Atalanta, lasciando tutto e dedicandosi interamente a me. Mio papà faceva l’operaio, lavorava anche di notte. Quando ho firmato il primo contratto, con i primi soldi guadagnati, gli ho detto di smettere di lavorare. Io non sentivo l’esigenza di farmi alcun regalo, volevo solo ripagare i miei genitori dei sacrifici che avevano fatto per me”.

Quanto è stato importante per te, soprattutto nei primi anni, crescere in un settore giovanile dell’Atalanta che tutti descrivono come ambiente ideale per creare calciatori?
“Direi per creare uomini, prima di tutto. Ricordo soprattutto la loro attenzione maniacale per l’educazione: se fossi andato male a scuola, non avrei giocato. Se avessi preso una squalifica, me la avrebbero raddoppiata. Eravamo veramente “soldatini”, ma nel senso buono del termine, ci insegnavano il rispetto e il modo di comportarci. Il calciatore era semplicemente una conseguenza. Ovvio che eravamo lì per le nostre qualità, ma non si doveva mai dare nulla per scontato, non sarebbe mai stato accettato”.

Luciano Zauri in azione con la Lazio.
Luciano Zauri in azione con la Lazio.

Dell’esordio in A abbiamo già parlato, quali altri ricordi ti legano a Bergamo e all’Atalanta?
“Io non posso che parlare bene della società e dell’ambiente: i tifosi della Dea sono eccezionali, un legame con la squadra davvero unico. Ricordo la promozione in A con Vavassori allenatore (1999/2000 n.d.r.), un vero signore. Dispiace non vederlo più in panchina, perché avrebbe ancora molto da insegnare, ma forse, per come era fatto lui, questo non è più il suo calcio, purtroppo. E che emozioni anche l’anno successivo in A: per molte giornate siamo stati addirittura in vetta, un momento di esaltazione collettiva per la città e per tutti noi”.

Il tuo secondo “amore” in carriera è stata la Lazio…
“Io sono stato bene in tutte le squadre in cui ho giocato, anche a Firenze, alla Sampdoria e nelle altre. Sia a livello ambientale, sia a livello di spogliatoio, in ogni squadra nella quale sono stato, si è sempre creato un rapporto ideale. Però, non posso negarlo, l’Atalanta e la Lazio sono state le esperienze più durature, dunque inevitabilmente sono quelle alle quali mi sono legato di più. Della Lazio ho ottimi ricordi, abbiamo lottato per grandi traguardi, ho esordito in Champions League, abbiamo vinto una Coppa Italia e ne sono stato Capitano per un anno e mezzo: quella, forse, è stata l’emozione più grande”.

Quella era una Lazio di grande personalità, con tanti giocatori che poi sono diventati allenatori: su chi avresti scommesso?
“Ho conosciuto i due fratelli Inzaghi, Pippo all’Atalanta e Simone alla Lazio, ed era facile immaginare potessero diventare allenatori perché sapevano davvero tutto del calcio. A parte l’educazione e la preparazione tattica, conoscevano tutti i giocatori del pianeta, una roba che facevi fatica a credere”.

C’è un ex compagno di squadra sul quale, invece, non avresti puntato e, poi, invece, è diventato allenatore?
“Ti direi Gilardino, ma non per le qualità e la conoscenza del calcio, quella non si discuteva, ma più per una questione caratteriale. Non credevo potesse interessargli, ma devo dire che sembra nato per fare questo mestiere”.

Luciano Zauri contro Julio Baptista in Roma–Fiorentina.
Luciano Zauri contro Julio Baptista in Roma–Fiorentina.

Tu hai avuto tanti maestri, chi è quello che ti ha influenzato di più?
“Di Vavassori ho già detto. Ho avuto Prandelli sia nella Primavera dell’Atalanta, sia alla Fiorentina e devo dire che lui mi ha insegnato ad essere calciatore. Poi, aveva una personalità tale, da non avere alcuna necessità di alzare la voce. Ho visto altri allenatori cercare di affermarsi urlando, a lui bastava uno sguardo o una parola per ristabilire l’ordine. Da lui ho imparato anche che non tutti i giocatori sono uguali, ma che le regole valgono per tutti. Lui, ad esempio, aveva un debole per Mutu, lo sapevamo tutti, ma nello spogliatoio valeva come gli altri. Un gruppo sano riconosce i giocatori forti e non è geloso, anzi spesso li appoggia perché è il modo più “facile” per arrivare al successo”.

E quel gruppo a Firenze era decisamente di personalità…
“Eh già: Mutu, Felipe Melo, Frey, Vargas, Almiron, Osvaldo e tanti altri. Avevamo creato un bellissimo gruppo in pochissimo tempo, ma era davvero una squadra “pazza”. Ricordo che avevamo una piscinetta in spogliatoio e poco prima degli allenamenti qualcuno ci finiva dentro e tutti scappavamo in campo. Lo sfortunato di turno – che spesso era Franco Semioli – doveva asciugarsi, cambiarsi in fretta e arrivare in tempo per evitare la multa (ride, n.d.r.). Forse oggi ci denuncerebbero, ma quelli erano momenti che cementavano il gruppo e tutti – anche Franco, ne sono sicuro – li ricordiamo con nostalgia”.

A proposito di personalità: che dire di Mihajlovic?
“L’ho incrociato il primo anno alla Lazio e, poi, a Bologna: io ero allenatore della Primavera e lui della Prima Squadra. Era appena tornato dal primo ciclo di cure ed era il periodo in cui si sentiva bene. Lo ammiravo correre per più di un’ora prima di ogni allenamento, aveva una forza incredibile. A me piaceva assistere alle sue sedute con la squadra, ma per rispetto ogni volta chiedevo al suo vice il permesso. Alla terza volta è arrivato Sinisa da me e mi fa: “Hai rotto le palle, non c’è bisogno che me lo chiedi, vieni e basta”. Alla Lazio, invece, ricordo ancora le gare su punizione. C’era chi aveva il coraggio di sfidarlo, ma vinceva sempre lui. Scommettevano il pieno della Ferrari. Io mi sedevo e lo guardavo mettere la palla dove voleva, io nemmeno con le mani sarei riuscito a fare quello che faceva lui con i piedi (sorride, n.d.r.). E, poi, Sinisa era l’unico che si poteva permettere di avere la sua bottiglia di vino sul tavolo anche nei pranzi prima della partita. Nessuno ha mai avuto il coraggio di dirgli nulla…”.

Restiamo sulla qualità: hai probabilmente vissuto il miglior Cassano della sua carriera alla Sampdoria…
“Aggiungerei anche Pazzini, una coppia d’attacco allucinante. E infatti alla fine di quella stagione (2009/2010 n.d.r.), siamo arrivati quarti. Peccato non aver potuto giocare i preliminari di Champions League dell’anno successivo (per altro persi dalla Samp, n.d.r.), ma ero tornato alla Lazio per fine prestito e i tempi si sono allungati prima che rientrassi a Genova. Di Cassano che dire, in campo un fenomeno. Poi, torniamo al discorso che facevamo prima, i giocatori forti non sono come gli altri e lui, probabilmente, era più “diverso” degli altri (sorride, n.d.r.). Ad ogni modo, non ricordo “cassanate” eclatanti: quella stagione ha avuto uno screzio con Delneri, che lo ha messo fuori rosa in inverno. Quella pausa gli è servita, è tornato più forte di prima e ci ha letteralmente trascinati”.

Luciano Zauri con la maglia della Sampdoria.
Luciano Zauri con la maglia della Sampdoria.

E quell’anno, da ex laziale, hai fatto perdere lo Scudetto alla Roma…
“Eh già, una gioia non doppia, ma tripla (ride, n.d.r.). Vincere all’Olimpico, andare in Champions League e con quella vittoria negare alla Roma la vittoria dello Scudetto. Pensa che dopo la partita avevamo programmato una serata con le famiglie in un locale di Roma: beh, dopo la vittoria non ero così convinto di andare… Se avessimo beccato qualche tifoso della Roma non sarebbe stata una situazione serena, diciamo così. Dunque, ho chiamato il PR del locale e mi sono assicurato che ci fosse la sicurezza. Alla fine, siamo andati ed era pieno di tifosi della Lazio che ci hanno anche offerto da bere (ride, n.d.r.).

Sempre restando alle personalità importanti: in Nazionale ne hai trovate parecchie…
“Eh sì, ma l’emozione più grande è stata ritrovarmi a centrocampo a cantare l’inno in un San Paolo gremito. Io una sensazione del genere nella mia carriera non l’ho mai vissuta. Quella era la Nazionale che da lì a poco si sarebbe laureata Campione del Mondo, dunque le personalità non mancavano. Mi sento però di citare un giocatore che non alzò quella coppa, ma che – solo a guardarlo – rimanevi ammirato. Parlo di Paolo Maldini, che reputo il miglior difensore della storia del calcio. Ricordo la mia prima convocazione in Nazionale, mi dissero di andare in Stazione Centrale a Milano, di incontrarmi con Paolo al binario e fare il viaggio insieme fino a Coverciano. Ricordo che non spiccicai parola tanta era l’emozione. Lo guardavo come se fosse un extra-terrestre. Eppure, parecchi anni dopo, ci siamo incontrati di nuovo in Cina per una partita-esibizione ed è stato lui a venire da me a salutarmi. Non credevo nemmeno si ricordasse di me… Un signore”.

C’è, invece, un compagno che ha reso meno di quello che ti saresti aspettato?
“Secondo me Domenico Morfeo aveva qualità da fuoriclasse assoluto. E non lo dico solo perché siamo compaesani e amici. Siamo cresciuti insieme all’Atalante e a Mimmo mi lega un affetto vero, ma lui lo sa quante volte mi ha fatto incazzare (ride, n.d.r.). Non fosse stato così testone, ora sarebbe ricordato come uno dei giocatori italiani più forti della storia. Non esagero, lui vedeva calcio prima degli altri, faceva giocate che era difficile addirittura immaginare. Classe pura, un genio. Nella mia squadra ideale, un 4-3-2-1, i due trequartisti sarebbero Morfeo e Cassano, senza dubbio”.

E il centravanti?
“Uno col paraorecchie, perché con due così non puoi giocare, ti tirano scemo (ride, n.d.r.). A parte gli scherzi, ci vorrebbe uno con grande personalità e pure grosso, forse uno come Bobo Vieri potrebbe reggere l’urto…”.

Luciano Zauri oggi, allenatore del Campobasso.
Luciano Zauri oggi, allenatore del Campobasso.

Un allenatore con il quale proprio non ti sei trovato?
“Ce ne sono stati, ma in Italia nessuno fa nomi e non sarò io il primo a farne (ride, n.d.r.). Tuttavia, anche loro mi hanno lasciato qualcosa. Ad esempio, ci sono quelli che non mi facevano giocare e neanche mi spiegavano il motivo. Non giocare ci stava, per carità, non è che fossi Maradona, ma magari qualche spiegazione avrebbe aiutato a digerirla meglio. Adesso, infatti, io cerco sempre di parlare con i miei giocatori. A loro dico: “Lo so che adesso mi stai mandando a fanculo (testuale, n.d.r.), ma tanto non ci possiamo fare niente. L’unico modo che hai per giocare è farmi ricredere”. Insomma, capisco cosa provano perché ci sono passato e, dunque, cerco quanto meno di avere un dialogo e di spiegare loro le mie ragioni.”.

Di quale allenatore di oggi, invece, vorresti vedere un allenamento?
“Non tanto un allenamento, ma magari una riunione tecnica. Mi piacerebbe vedere come Ancelotti e Allegri gestiscono lo spogliatoio, perché credo che siano i migliori in questo senso. Quest’anno mi ha impressionato Gasperini, non credevo potesse avere un impatto così netto e in così poco tempo. Poi, da laziale, mi piacerebbe vedere come lavora Sarri, lo apprezzo molto e sono convinto che presto vedremo i risultati…”.

Ci hai già detto che non rimpiangi nulla della tua carriera, ma c’è qualcosa che non rifaresti?
“Sì, una cosa c’è: la famosa “parata” in Lazio-Fiorentina del 22 maggio 2005. Era una partita importantissima, perché entrambe lottavamo per non retrocedere ed era la penultima di campionato. Su un tiro di Jorgensen, d’istinto, ho alzato la mano e deviato la palla sopra alla traversa. Gli unici ad accorgersene furono lo stesso Jorgensen e Peruzzi che – per complimentarsi – mi diede un coppino (ride, n.d.r.). In quel momento, è stato puro istinto. Successivamente mi sono scusato, ma quell’episodio in qualche modo ha segnato la mia carriera. Qualche anno dopo mi sono trasferito alla Fiorentina e i tifosi mi hanno accolto con la classica ironia toscana. Ricordo uno striscione: “Zauri, sei qui per darci una mano?”. Hanno anche voluto fare una cerimonia di purificazione alla mano incriminata (ride, n.d.r.)”.

C’è qualcuno che ti senti di ringraziare per averti aiutato a coronare il tuo sogno?
“L’elenco sarebbe lunghissimo e rischierei di lasciare fuori qualcuno. Come dicevo in precedenza, tutti gli addetti ai lavori, gli allenatori (anche quelli che non mi hanno fatto giocare), i compagni di squadra, sono stati fondamentali. Dei miei genitori ho già detto, senza i loro sacrifici non ce l’avrei mai fatta. E, poi, fatemi ringraziare mia moglie Venessa, che mi sopporta dal 2010 (e prima ancora da fidanzati) e che ci ha regalato i nostri splendidi figli Lorenzo e Giulia. Stare dietro ad un irrequieto come me non è facile, me ne rendo conto, ma loro sono meravigliosi”.

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