Lamberto Zauli: “Oggi i ragazzi non hanno mentalità, dopo due panchine chiamano il procuratore”

C’è chi lascia il segno con la velocità, chi con la potenza. Lamberto Zauli ha scelto la classe. ‘Il Principe della Serie B', lo chiamavano così, capace di far parlare il pallone più del fischio dell’arbitro. Dai primi passi nelle giovanili del Grosseto al grande salto in Serie A con Vicenza, passando per Bologna e Palermo, ogni partita era una piccola lezione di tecnica e visione di gioco. Poi i gol decisivi, le promozioni, i momenti in cui il cuore batte forte e la storia del club cambia per sempre. Quando il calcio giocato ha ceduto il passo a quello allenato, Zauli non ha smesso di inseguire la bellezza del gioco: tra panchine, strategie e ragazzi da plasmare, ha scritto nuove pagine della sua storia. Lamberto Zauli a Fanpage.it si racconta tra ricordi e riflessioni, mostrando il calcio attraverso gli occhi di chi l’ha amato prima come protagonista e poi come maestro.
Cosa fa oggi Lamberto Zauli?
"Come tutti quelli che in questo momento non allenano, cerco di restare sul pezzo. Seguo tutto, per passione più ancora che per lavoro. È una cosa che non mi abbandona mai".

Negli ultimi anni ha vissuto esperienze intense, tra Crotone, Vicenza e Perugia. Come si gestiscono umanamente esoneri e ripartenze in un calcio così frenetico?
"L’esperienza ti aiuta. Le delusioni fanno parte del mestiere: sei il primo responsabile, anche quando sai di non essere l’unico. Ogni volta però riparti da capo, con personalità e carattere. A Crotone, per esempio, abbiamo vissuto un periodo esaltante: 17-18 risultati utili di fila, poi a gennaio la squadra è stata smantellata con la cessione di Petriccione e abbiamo perso sicurezza. Dopo qualche pareggio arrivò l’esonero. Tornai per il finale, ma l’entusiasmo si era spento. A Perugia invece, dopo tre mesi, cambiarono società e direttore sportivo. Quando non c’è stabilità, diventa tutto più fragile. E infatti anche lì si è deciso di cambiare troppo in fretta".
Ha lavorato tre anni alla Juventus, tra Primavera e Under 23. Quanto è importante avere una seconda squadra per far crescere i ragazzi?
"Tantissimo. Parliamo di un ambiente di altissimo livello: strutture, organizzazione, professionalità. I ragazzi toccano con mano la prima squadra, respirano quella mentalità. All’Under 23 ho visto tanti giovani diventare uomini: Fagioli, Miretti, Soulé, Iling, Nicolussi Caviglia… ragazzi che oggi giocano in Serie A. Sono orgoglioso di averli allenati, e di aver visto nascere in loro la consapevolezza di poter arrivare".
C’è un giocatore che l’ha colpita più di tutti?
"Difficile fare un solo nome. Fagioli, Miretti, Soulé sono talenti veri. Ma anche Felix Correia, che oggi gioca in Francia, fece con noi un girone d’andata straordinario. Tutti avevano qualcosa di speciale, e il lavoro quotidiano era proprio quello: capire i loro difetti e aiutarli a correggerli"

C’è una categoria di calciatori offensivi di un certo periodo storico, tra gli anni '90 e i 2000, diciamo un gradino sotto rispetto ai fuoriclasse dell’epoca, che viene ricordata spesso nei discorsi calciofili: perché Zauli & co. sono così amati?
"Credo per l’emozione. La gente si affeziona a chi la fa divertire. Noi rappresentavamo quel tipo di calcio dove la giocata, l’idea, il colpo di genio facevano la differenza. Oggi ci sono meno giocatori così, anche per colpa dei moduli e della paura di perdere. Il calcio è diventato più fisico, più tattico. Ma la fantasia, quando c’è, la gente se la ricorda per sempre"
Facciamo qualche passo indietro: la cavalcata del Vicenza in Coppa delle Coppe è ancora una favola. Che ricordi ha?
"Indelebili. Per me era tutto nuovo: venivo da Ravenna, giocare in Serie A era già un sogno. E poi la Coppa delle Coppe… una competizione vera, con squadre fortissime. Il gol al Chelsea è rimasto nella storia, ma ogni turno vinto era una festa. A Vicenza si respirava un entusiasmo contagioso: tutta la città viveva per la squadra. Ancora oggi mi emoziono a ripensarci".
Lei con Guidolin ha condiviso molte tappe: Vicenza, Bologna, Palermo. Che rapporto c’era tra voi?
"Bellissimo. Gli ho scritto per i suoi 70 anni: tra noi c’è stima e affetto veri. È stato l’uomo che mi ha cambiato la mentalità. Da buon giocatore sono diventato un professionista serio grazie a lui. Mi ha “mentalizzato”, come dico sempre io. Era geniale, preparatissimo. Forse non ha avuto la grandissima occasione, ma ovunque è andato ha fatto bene. Gli devo tanto".

A Palermo avete scritto un’altra pagina importante del calcio italiano. Che esperienza è stata?
"Straordinaria. Dopo un’ottima stagione al Bologna, scelsi Palermo in Serie B. Non vincemmo subito, ma l’anno dopo sì, con una città in delirio. Zamparini arrivò e portò entusiasmo, organizzazione, ambizione. Ricordo lo stadio pieno tre ore prima del fischio d’inizio, e il giorno della promozione non riuscimmo nemmeno a uscire dall’impianto. Ancora oggi, quando torno a Palermo, sento un affetto incredibile. È una piazza che ti resta dentro".
Zamparini la definì “lo Zidane della Serie B” mentre prima altri la chiamavano ‘Zidane del Triveneto': quanto si riconosce in quel soprannome e quanto le ha pesato o stimolato nel corso della carriera?
"L'ho sempre considerato un complimento visto il calibro di Zidane. Zamparini quando mi presentò al Palermo alzò la posta dopo il precedente. Era una cosa che per me finiva là".
Da giocatore a tecnico: cosa l’ha spinta a intraprendere questa nuova carriera?
"La passione. Mi è sempre piaciuto il campo, lo spogliatoio, il gruppo. Quando ho smesso, ho capito che quella dimensione mi mancava troppo. Allenare mi restituisce l’adrenalina. Un dirigente vive il calcio in modo diverso: io ho bisogno di sentire l’erba sotto i piedi".

Lei parla spesso di ‘campo' e di ‘persone'. Si sente più un formatore o un allenatore da progetto?
"Un po’ entrambi. L’allenatore deve conquistare i giocatori ogni giorno con coerenza e competenza. Al centro ci sono sempre le persone. Allenare giovani mi ha insegnato tanto: capisci come pensano, dove puoi aiutarli, come motivarli. Ma in qualsiasi squadra io metto prima l’uomo, poi il calciatore".
Cosa pensa del minutaggio dei giovani nelle serie minori. Favorevole o contrario, e perché?
"Contrario perché non li aiutano a crescere. Io credo nella meritocrazia: giochi se sei forte, non perché sei giovane. Quando sanno di avere il posto assicurato, i ragazzi perdono cattiveria, non sviluppano carattere. Noi ci allenavamo con l’idea di guadagnarci la maglia. Oggi dopo due panchine chiamano il procuratore. Così non crescono".
Anche il rapporto con il denaro è cambiato…
"Molto. Ai miei tempi ti dovevi conquistare tutto, e venivi premiato dopo. Oggi tanti guadagnano bene prima ancora di aver dimostrato. Il problema non sono i soldi, ma il modo in cui li ottieni. Se ti alleni forte, se vuoi dimostrare, il denaro diventa una conseguenza. Io conosco giocatori che hanno fatto milioni, ma ogni domenica entravano in campo come se si giocassero la casa. Quella è mentalità".

Zauli se lo ricorda il suo primo stipendio da calciatore?
"Io l'ho preso a 20 anni quando stavo alla Centese, ma ti parlo di 800.000 lire. Dopo di aver dimostrato a Cento, sono andato a Modena e mi hanno prestato a Ravenna: guadagnavo due milioni di lire, che erano soldi per un ventenne, però se non fossi ‘arrivato', passami il termine, io il giorno dopo sarei dovuto andare a lavorare. Quindi tu hai delle motivazioni importanti dietro che ti spingono. ".
Si sente pronto a tornare in panchina?
"Assolutamente sì. Mi piace troppo, è la mia vita. Aspetto una società che creda nella persona prima che nel nome. Ho voglia di rimettermi in gioco. Non mi sento arrivato, ho ancora tanta fame. E se non sono preparato, non mi presento: voglio conoscere i giocatori meglio del direttore sportivo. Altrimenti non è lavoro, è hobby".
Prima lo abbiamo menzionato e direi che è il caso di chiudere questa chiacchierata con un tocco di tecnica: ci racconta quel gol al Chelsea nella semifinale di Coppa delle Coppe?
"(Ride, ndr) È stato tutto velocissimo. La palla mi passa sopra la testa, la controllo al volo senza farla rimbalzare e va più a destra di quanto volessi. Ma riesco subito a nasconderla al difensore e calciare di sinistro. Non è un gol ‘pensato': è istinto, tecnica e velocità di esecuzione. Ecco, in quel gesto c’è tutto il mio calcio: improvvisazione, istinto e libertà".