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Julio Gonzalez: “Vi racconto perché il giorno dell’incidente è stato il più bello della mia vita”

Julio Gonzalez ha perso un braccio, ma ha trovato una nuova strada nel calcio: dal sogno olimpico e i gol col Vicenza al dramma dell’incidente che gli ha cambiato la vita, oggi insegna ai giovani a non mollare.
A cura di Sergio Stanco
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Immaginate di aver sognato – fin da bambini – di diventare calciatori. Immaginate di aver fatto tanti sacrifici, di aver attraversato il pianeta pur di riuscirci, di aver lasciato la famiglia, gli amici di infanzia e – poco più che ventenni – di arrivare ad un passo dal successo. Di superare l’Italia e conquistare un argento alle Olimpiadi. Di giocare contro (e battere) Pirlo e De Rossi, di affrontare in finale l’Argentina olimpica più forte di sempre (con Zanetti, Tevez, Ayala, Burdisso e molti altri) e di essere ad un passo dal trasferirvi in una big. Bene, ora immaginate di risvegliarvi in una stanza di ospedale con un dottore che vi dice: “Non giocherai mai più a calcio”. Perché – senza un braccio – a calcio non si può giocare, almeno non a livello professionistico. Ecco, se dopo tutto questo riuscite a dire: “Quello è stato il giorno più bello della mia vita”. Allora siete Julio Gonzalez. Ma lo dubitiamo, perché come Julio ce n’è uno solo…

Arrivato a Vicenza dal Paraguay da giovanissimo, la storia è quella che vi abbiamo raccontato: qualche difficoltà di ambientamento, poi l’esplosione, il (momentaneo) titolo di capocannoniere in B e un contratto già pronto nel cassetto con la Roma (sarebbe stata la Roma di Spalletti, Totti, De Rossi, che arrivava seconda in campionato solo alle spalle dell’Inter di Mancini, ma che si toglieva anche la soddisfazione di sollevare la Coppa Italia…). Correva la stagione 2005-2006 e dopo la festa di Natale del Vicenza, mentre in auto si stava recando all’aeroporto per tornare a casa per le feste, un colpo di sonno ha completamente cambiato la vita del calciatore, ma – se possibile – ha arricchito quella dell’uomo. Ed è con grande piacere che vi raccontiamo questa bellissima storia. Perché anche le favole più crude, spesso, hanno un lieto fine.

Allora Julio, partiamo dalle origini: come nasce la passione per il calcio in Paraguay e come si è sviluppata?
“È nata grazie a mio padre, che a sua volta sognava di diventare calciatore. Per sua sfortuna lui non ci è riuscito, perché erano tempi in cui si doveva dare priorità al lavoro per aiutare la famiglia, ma poi ha riversato tutta il suo entusiasmo su noi figli. Ed è grazie a lui se io e i miei due fratelli siamo diventati professionisti”.

Julio Gonzalez con il Paraguay alle Olimpiadi.
Julio Gonzalez con il Paraguay alle Olimpiadi.

E la “povera” mamma come se la cavava con tre calciatori e un marito ultras in famiglia?
“Benissimo, lei era più ultras di mio papà (ride, ndr). Ho uno splendido ricordo della mia infanzia e dei miei genitori: mio papà era un tecnico, riparava fotocopiatrici e girava il Paraguay. Quando potevo gli facevo da portaborse. Appena finito, però, ricordo che tornava a casa, prendeva la borsa che mia mamma gli aveva già preparato e ci portava tutti al campo. Lui giocava la partita e noi facevamo il tifo. Entravamo in campo prima, all’intervallo e dopo per giocare. E alla fine, mia mamma, che era cuoca e pasticcera, dava da mangiare a tutti. I miei genitori sono stati speciali, pur nella semplicità di quel periodo, non ci hanno mai fatto mancare nulla”.

Quando, a 19 anni, ti hanno detto vai In Italia, deve esser stata dura…
“Dal punto di vista emotivo ovviamente sì, ma prevaleva l’entusiasmo di un’occasione imperdibile. Non potevo lasciamela sfuggire, c’era tutta l’eccitazione della storia della tua vita che può cambiare. E, poi, nella direzione del sogno che hai sempre rincorso fin da bambino”.

All’inizio, in Italia, non è stato facile…
“No, è vero. Come in tutte le cose nuove, ci è voluto un po’ di tempo, ma non ho mai mollato, neanche quando sono stato “costretto” a tornare in Paraguay per rilanciarmi. Poi, però, le cose si sono messe benissimo: ricordo che prima di andare alle Olimpiadi ho segnato al Brasile e, con l’Olimpica, abbiamo conquistato quella che ancora oggi è l’unica medaglia della storia del mio Paese. Poi, conquistarla battendo Italia favorita e perdendo solo con l’Argentina di Tevez in finale, è stato un orgoglio in più”.

Che ricordi hai della partita contro gli Azzurri?
“Era una squadra fortissima, a centrocampo c’erano Pirlo e De Rossi, in difesa Chiellini e in attacco Gilardino. Ci hanno praticamente messo dentro la nostra porta, ma noi siamo riusciti a fare un gol e poi ci siamo messi dietro a difendere. Io ero l’unico attaccante e provavo a tenere su palla, ma era durissima. Come lo chiamate voi: catenaccio, giusto? Ecco, quella cosa lì (ride, ndr)”.

Julio Gonzalez in campo con la maglia del Vicenza.
Julio Gonzalez in campo con la maglia del Vicenza.

E proprio quando tutto sembrava andare bene, l’incidente: quanto è stato difficile accettarlo?
“Guarda, non è stato tanto l’accettare di essere rimasto senza un braccio, ma quanto il fatto di veder svanire tutti i sogni e i sacrifici per i quali avevi fatto tante rinunce fino a quel momento. Mi faceva male anche pensare ai sacrifici e alle rinunce che i mei genitori avevano fatto per farmi arrivare fino a lì. Ero davvero ad un passo dal coronamento della carriera: a Vicenza giocavo, segnavo e anche se ero in scadenza di contratto, mister Camolese puntava sempre su di me. A fine stagione, oggi posso dirlo, sarei andato alla Roma, quella di Spalletti, Totti e De Rossi. In nazionale ero diventato titolare. Eppure, posso dirti che – da un lato – il giorno dell’incidente è stato il più bello della mia vita, perché mi ha dato un’altra opportunità. Certo, dovevo adattarmi alla nuova realtà, ma anche se avevo subito un brutto incidente, avevo ancora la possibilità di godermi la famiglia e pensare di poter ricominciare…”.

Già, perché tu hai provato in tutti i modi a ricominciare a giocare, ma senza ricevere l’idoneità, almeno in Italia…
“Sì, ma come ti dicevo prima, io ho la testa dura. Si dice così, no (ride, ndr)? L’ho presa come una sfida: volevo dimostrare a tutti di potercela fare e, alla fine, ho avuto ragione io. Ho ripreso ad allenarmi, ma in Italia non ho più potuto giocare. Ci sono riuscito nella Serie A del Paraguay, anche se mi son reso conto che non era più la stessa cosa. Avevo problemi di equilibrio e continuavo a cadere. Avevo capito che non sarei più riuscito a tornare ai miei livelli, stavo già valutando di lasciare, poi mi sono anche fratturato la clavicola e a quel punto ho deciso di ritirarmi”.

Hai avuto paura in quel momento? Mai detto “E adesso cosa faccio”?
“No, perché – come ti dicevo prima – mi ero già preparato a quell’eventualità. Mi sono subito iscritto al corso per allenatori e nel frattempo avevo già avviato la mia scuola calcio per bambini. È stato un passaggio quasi naturale. Poi, poter lavorare con i miei ragazzi, è stato un dono. Nella scuola calcio sono arrivati bimbi orfani e anche questo è stato un segno del destino: uno di questi – Moises – è diventato mio figlio. Oggi, che io sono qui in Italia, lui è diventato responsabile della mia scuola calcio, che nel frattempo era diventato un Inter Campus. È un ragazzo splendido, non potevo lasciare in mani migliori. Recentemente si è sposato e mi ha anche reso nonno. Quando dico che la vita ti offre sempre un’altra opportunità, intendo questo. Dopo quattro figli naturali, Moises è stato un altro dono del cielo”.

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Ecco, arriviamo ad oggi: sei tornato nella tua Vicenza e nella tua Lane, come la chiamano da quelle parti. Hai avuto un’accoglienza da brividi da parte dei tifosi: che effetto ti ha fatto?
“Non lo riesco a spiegare, davvero. Ogni volta che torno a Vicenza mi chiedo come sia possibile che la gente mi voglia così bene (sorride, ndr). Ogni volta penso “è passato tanto tempo, si saranno ormai dimenticati di me”, invece – se possibile – l’affetto aumenta. Per questo dico sempre che Vicenza è casa mia. Eppure – comunque – non riesco ad abituarmi a tutto questo. Da quando sono arrivato, non ho avuto una serata libera, tra visite ai club dei tifosi e ritrovi con vecchi amici. La cosa che mi rende più orgoglioso, però, è l’opportunità che mi ha offerto il Vicenza: lavorerò con i giovani e proverò ad aiutarli nel loro percorso di crescita, portando la mia esperienza. Dico sempre che l’incidente mi ha dato la possibilità di vivere una seconda volta, in questo caso è come se il Vicenza mi concedesse un’altra vita nel calcio”.

Molti dicono che i giovani di oggi sono “diversi”: quali consigli ti senti di dare a questi ragazzi?
“Alleno giovani che hanno vissuto un momento unico nella storia e che, forse, noi grandi sottovalutiamo. In periodo di pandemia i miei figli hanno dovuto smettere di andare a scuola, non si sono potuti allenare per un anno. Quando vedo ragazzi che alla prima difficoltà, che a noi non sembra neanche così insormontabile, vogliono mollare tutto, li capisco. Io, però, sono qui perché nessuno molli, questo è il mio ruolo: spiegherò loro che nulla succede per caso e che c’è sempre il modo giusto di reagire alle difficoltà”. E – in questo senso – non c’è insegnante migliore di Julio Gonzalez…

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