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Guardiola e Sarri hanno fallito: il calcio semplice spiega perché la Juve ha sbagliato tutto

Pep Guardiola e Maurizio Sarri (entrambi capofila dell’estetica degli schemi) soccombono rispetto al pragmatismo di Rudi Garcia che ha giocato in maniera efficace e funzionale. In Italia lo avrebbero definito catenacciaro, vecchio, obsoleto per la capacità di essere letale in contropiede e le marcature asfissianti. Organizzazione, poche idee chiare, intuizione nel leggere la partita danno scacco a quella che fino a poco tempo fa era considerata la modernità. Pep e il collega toscano: la Juve ha provato a prendere il primo poi s’è accontentata del secondo. E ha sbagliato tutto. Dando ragione ad Allegri.
A cura di Maurizio De Santis
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Due squadre francesi in semifinale di Champions League (Lione e Psg), altrettante le tedesche (Bayern Monaco e Lipsia). Tutte, o quasi, senza investimenti folli per allestire le rose, affidate ad allenatori in grado di produrre dividendi e far fruttare anche in campo il capitale umano a disposizione. Tre allenatori cresciuti in Bundesliga (Nagelsmann, Tuchel, Flick). Un campionato – la Ligue 1 – concluso in anticipo tra tante polemiche e che, oggi, le smorza grazie ai risultati dei club in evidenza nella Final Eight di Lisbona. Il quadro delle semifinali restituisce una geografia del calcio rivoluzionato in Europa, a cominciare dall'approccio tattico e dal ribaltamento di quelle teorie che in questi anni hanno scandito l'estetica del bel gioco, del possesso palla, della ragnatela dei passaggi, dell'applicazione metodica, quasi maniacale, degli schemi nemmeno fosse la playstation.

Al pragmatismo di Rudi Garcia e Flick ha fatto da contraltare il calcio "liquido e camaleontico" di Nagelsmann, novità balzata all'occhio assieme al progetto della Red Bull sotto l'egida di Rangnick (che il Milan ha messo da parte troppo in fretta per tenersi Pioli…). Ciascuno a modo suo – in particolare l'ex romanista – ha impartito una lezione molto chiara ai "guru" che hanno dominato la scena internazionale finora. Hanno prevalso finora la duttilità e la semplicità dei concetti che da una vita accompagnano il mondo del calcio perché non sempre la differenza la fanno i campioni. Organizzazione, poche idee chiare, intuizione nel leggere la partita, episodi che danno scacco a quella che fino a poco tempo fa era considerata la modernità.

Lo ripeteva Allegri (che in finale di Champions è arrivato per ben 2 volte in 3 anni alla guida della Juventus) e basta dare un'occhiata alle statistiche del Lione contro il Manchester City per trovarne conferma: 71% a 29% il possesso palla per gli inglesi; precisione nei passaggi bulgara (552, 87%) per i Citizens a confronto del Lione (177, 69%); 67 il numero delle palle lunghe giocate dai francesi (25 riuscite, 37%) rispetto alle 45 degli inglesi (22 riuscite, 49%); 12 a 2 il conto dei tiri in area appannaggio del Manchester, 18 a 7 (sempre a beneficio del City) il computo complessivo dei tiri in porta. Insomma, molto rumore per nulla al netto degli errori di Sterling ed Ederson che hanno pesato più di ogni escamotage tattico.

La sconfitta di Guardiola (come quella di Sarri, anche se con accenti e situazioni differenti) chiarisce che per fare calcio, e magari ottenere risultati, non è per forza necessario avere caratteristiche da demiurgo del pallone. Garcia ha giocato un calcio efficace e funzionale. Ha vinto, s'è qualificato cancellando dalla Champions prima la Juventus poi il Manchester City senza godere dei favori del pronostico, con una squadra ferma da 3 mesi per lo stop provocato dalla pandemia in Francia e una rosa sulla carta dal valore nettamente inferiore. In Italia lo avrebbero definito catenacciaro, vecchio, obsoleto per la capacità di essere letale in contropiede, capitalizzare le occasioni e la marcature asfissianti rispetto agli esteti del bel gioco. Pep e il collega toscano: la Juve ha provato a prendere il primo poi s'è accontentata del secondo. E ha sbagliato tutto. Dando ragione ad Allegri.

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Da venticinque anni nel mondo dell’informazione. Ho iniziato alla vecchia maniera, partendo da zero, in redazioni che erano palestre di vita e di professione. Sono professionista dal 2002. L’esperienza mi ha portato dalla carta stampata fino all’editoria online, e in particolare a Fanpage.it che è sempre stato molto più di un giornale e per il quale lavoro da novembre 2012. È una porta verso una nuova dimensione del racconto giornalistico e della comunicazione: l’ho aperta e ci sono entrato riqualificandomi. Perché nella vita non si smette mai di imparare. Lo sport è la mia area di riferimento dal punto di vista professionale.
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