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Barcellona-Real Madrid: Messi contro Sergio Ramos, il gusto pieno del Clasico

Il Clasico è più di un match. E’ la riproposizione di una rivalità ostentata. Nel loro modo di giocare c’è una scelta di campo. Il Barcellona di Messi vuole affermare la superiorità estetica e di valore del gioco di passaggi. Il Real, come tutta Madrid dopo il franchismo, punta sullo stile ma vive per la vittoria. Sergio Ramos non può che essere il condottiero ideale.
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Barcellona e Real arriveranno insieme al primo Clasico della stagione. Appaiate in classifica, sono anche nello stesso albergo e, con gli arbitri, faranno assieme il percorso verso lo stadio. Messi e Sergio Ramos, i simboli delle due squadre, entreranno dal varco 7 a quindici di distanza uno dall'altro. Certo, il Clasico di Spagna non è solo Messi contro Sergio Ramos. E' la serata di Suarez e di Benzema, di Kroos re dei passaggi e Busquets, dei tecnici Valverde e Zidane.

Però, Messi e Ramos sono il Clasico. Il manifesto di Barcellona e Real Madrid. E come ogni manifesto, affermano un'identità e costruiscono un'eredità. Messi, costretto a dribblare i limiti fisici per poi scartare gli avversari, rinnova il lessico del Barcellona che si compiace di essere più di un club. Esalta chi si racconta come collante di un'opposizione identitaria e insieme espressione di un festante culto della bellezza salvifica racchiusa nel "tiqui-taca". Ramos, quinto più presente di sempre con la maglia del Real Madrid, contrasta questo auto-racconto dei ribelli nel trionfo della fermezza, del successo misurato dallo scintillio dei trofei.

Barcellona e Real, lo specchio dei tempi

Ogni storia ha bisogno di eroi e anti-eroi, di buoni e anti-eroi. Il Clasico si presta a rinvigorire l'epica dei padroni e dei ribelli, ad essere oggi la prosecuzione della Casa di Carta con altri mezzi. L'opposizione c'è, le forzature che l'hanno resa radicale anche. Da un lato quella del Barcellona "esercito disarmato della Catalogna", nell'etichetta dello Manuel Vazquez Montalban, avvolto nelle senyeras. Dall'altro, quella altrettanto letteraria del Real come squadra franchista. Per il regime, ha detto l'ex ministro degli esteri Fernando Mária Castiella, "fu la miglior ambasciata mai avuta". Ma la squadra che ha mantenuto rapporti più organici con Franco era l'Atletico Madrid chiamato a fondersi con l’Aviazione Militare per partecipare e vincere i primi due campionati della dittatura.

Ma il romanzo del Clasico incrocia anche due verità altrettanto potenti. Nel Barça di oggi, che si specchia in Messi, si ritrova lo spirito della Barcellona post Olimpiadi del 1992: tutta bellezza e piacere per turisti che non si fermano solo davanti alla Sagrada Familia di Gaudì. Il Real che fu dei Galacticos, invece, racconta la Madrid icona della post-modernita che nel decennio successivo alla morte di Francisco Franco ha vissuto la sua rivoluzione identitaria nel segno della movida e del consumo culturale diffuso.

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Il Barcellona "sovversivo" è diventato ecumenico

Il Barcellona, ha scritto Ramón Miravitlles, è diventato "più che un club non perché lo affermava il presidente Narcís de Carreras nell'anno ribelle 1968, ma perché molti tifosi catalani e spagnoli contemplavano in loro i valori politici che il totalitarismo basato a Madrid perseguiva come sovversivi, o perché la ingiustizia sportiva imperversava a beneficio delle squadre del regime". Al Camp Nou, oltre alle bandiere giallorosse catalane, oggi in campo potrebbero volare enormi palloni da spiaggia neri. Lo Tsunami Democratic vuole denunciare così l'uso di munizioni da parte della polizia nazionale antisommossa durante le proteste per l'arresto dei leader dei 12 politici catalani coinvolti nell’organizzazione del referendum del primo ottobre 2017. Il motto di questa protesta continua a essere l’hashtag #SpainSitAndTalk, “Spagna, siediti e parliamo”.

La rivalità con il potere centrale inizia con la resa di Barcellona l'11 settembre 1714 e la costruzione della Ciutadela per cui hanno demolito il quartiere della Ribera. Si rinforza nel ricordo dell'assassinio dell'allora presidente catalano Joseph Sunyol. Era un commerciante di zucchero, visitava le truppe repubblicane vicino di Madrid, viene riconosciuto e ucciso vicino la Sierra de Guadarrama, dove Hemingway ambientò Per chi suona la campana. Si smorza sotto la presidenza Nunez, eletto nel 1978, che sogna un Barcellona bello e trionfante.

Un Barcellona ecumenico, sognante e sognatore: il logo dell'Unicef sulle maglie arriverà dopo. Sotto la sua presidenza, maturano i primi trionfi in Coppa delle Coppe e in Coppa dei Campioni, Cruijff avvia la rivoluzione che mette i blaugrana sulla scia calvinista del calcio totale: forgia il Dream Team e dà un senso nuovo alla Masia, la "cantera" più ambita del mondo.

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L'orizzonte blaugrana, una visione poetica

Il Barcellona è un orizzonte, un'idea, lo specchio cangiante della fierezza di una comunità. L'orizzonte indefinito di un tempo fluido come gli orologi di Salvador Dalì, che avrebbe voluto conoscere quel Cruijff capace di dipingere visioni col pallone tra i piedi. Il segno di una storia da romanzo come quella di Laszlo Kubala, genio ungherese senza patria per cui il Barcellona ha costruito il Camp Nou, eletto giocatore del secolo e omaggiato con la statua all'ingresso dello stadio.

Ungherese era anche il portiere Platko. Le sue parate contro la Real Sociedad in una finale di coppa del 1928 hanno ispirato il poeta Rafael Alberti che gli ha dedicato un'ode. "Maglie granata e blu si infiammavano, / silenziose senza vento" scrive. "Anche il mare si è girato dall'altra parte. / Erano tutti per te, sangue d'Ungheria. / Senza il tuo salto, il tuo impulso, la tua parata / temevano il peggio. Nessuno, Platko / nessuno dimentica. Fu il ritorno del mare, dieci rapide bandiere che si incendiano senza freni. Fu il ritorno del vento, il ritorno al cuore e alla speranza".

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La via del Real Madrid: vivere per la vittoria, ma con stile

Il Real ha meno slanci poetici. Steven G. Mandis, nel libro "The Real Madrid Way", avvicina la cultura dei Blancos, immagine evidentemente sfumata e difficile da afferrare, alla Ferrari o alla Harley Davidson. Parla di "creazione di una comunità globale con valori condivisi", di storia che diventa emozione. L'identità si rafforza nell'opposizione, ma gli opposti spesso si toccano. Anche Barcellona e Real condividono l'idea del calcio come espressione dell'identità collettiva, come trasmissione della cultura del club rinforzata dalla responsabilità che deriva dalla grandezza e dalla ricchezza.

"Il Real Madrid vive, respira, per la vittoria" ha detto l'anno scorso Walter Tavares, centro della squadra di basket. "Qui è come in NBA". Grandi giocate, prestazioni atletiche scintillanti, stelle che si accendono quando il gioco si fa duro e una certa ritrosia ad accettare l'idea che si possa vincere con la difesa, almeno fino al primo titolo dei Golden State Warriors nel 2015. Il paragone regge anche se spostato al calcio.

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"Avanti Madrid, nobili campioni guerrieri, cavalieri dell'onore! Avanti Madrid, difendete i vostri colori e vincete in una battaglia corretta" recita il coro nell'inno del Real. Le parole scritte su un tovagliolo da José de Aguilar nel 1952 fotografano uno spirito immutato al variar delle stagioni. La comunità del Real vuole vincere con stile. Vincere non basta: tra 2010 e 2011, il Real ha esonerato due allenatori capaci di conquistare la Liga, Fabio Capello e Bernd Schuster, perché non rispecchiavano l'ideale.Ma vincere resta l'obiettivo primario e ultimo, la condizione necessaria perché la storia diventi emozione.

Il punto in comune: solo vincere non basta

A Barcellona, da quando è iniziata l'osmosi con la cultura del calcio totale olandese con Cruijff, Van Gaal e Rijkaard, il calcio è ideologia: la forma conta quanto il risultato, non solo come appendice del risultato. Il club, costretto a soffocare la sua identità catalana nei decenni passati e oggi libero di ostentarla anche in chiave indipendentista, ha costruito una visione per cui il "bel gioco" è il calcio offensivo sviluppato attraverso una suadente, intricata rete di passaggi. E' una dimostrazione di filosofia, uno sfoggio di morale superiorità.

Per questo, Guardiola ha rappresentato il punto più alto di questo processo e Valverde, invece, sembra costantemente in discussione al di là dei demeriti per le due rimonte subite in Champions contro Roma e Liverpool. Guardiola, teso verso l'obiettivo della costruzione di una squadra perfetta, incarna al meglio questo processo di auto-rappresentazione per cui il Barcellona deve conformarsi a un ideale percepito come superiore e così inseguire la vittoria. Una trappola, un peso, una presa di posizione apprezzata perché affascinante, osteggiata in quanto arrogante.

E' qui, nel confronto tra l'utilità e la virtù estetica che passa la storia del romanzo da 90 pagine più appendici chiamato Clasico.

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