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La fine dell’incubo per Klay Thompson: torna ad essere decisivo in NBA e Golden State risorge

A 3 anni di distanza dal primo dei due infortuni in serie che l’hanno tenuto distante dal parquet per 941 giorni, Klay Thompson è di nuovo decisivo in NBA. E con lui risorgono i Warriors che si laureano campioni dell’Eastern Conference.
A cura di Luca Mazzella
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È quasi incredulo, Klay Thompson, alla fine di gara 5 delle Western Conference Finals tra i suoi Golden State Warriors e i Dallas Mavericks. Nella sfida che vale il 4-1 e il passaggio del turno dei californiani il contributo del numero 11 è stato di quelli fondamentali, con 32 punti e 8 triple mandate a segno, figli di un inizio furioso con i primi due quarti da urlo a lanciare un messaggio inequivocabile a Luka Doncic e soci.

E quando a fine partita Klay viene intervistato, sul palco allestito per i campioni dell'Ovest, con i suoi compagni alle spalle, di nuovo sul tetto assaporato più volte in carriera prima di uno stop di praticamente 3 anni, la guardia dei Warriors fatica a trattenere le lacrime e con orgoglio sembra voler rimandare ogni festeggiamento a missione ultimata, quella di portare a casa il quarto anello della dinasty dei giallo-blu. Allo stesso tempo però, Klay mostra tutta l'incredulità per essere tornato, per essere tornati anzi a essere la squadra da battere nella Conference di LeBron James, di Luka Doncic, di Chris Paul, di Nikola Jokic, in un percorso personale che ha inevitabilmente avuto ripercussioni su tutta la franchigia.

Quando ormai 1079 giorni fa, nel giugno del 2019, Klay iniziava il suo calvario, la Golden State dei Big 4 con ancora Kevin Durant a roster ma infortunatosi pochi giorni prima al tendine d'Achille era in piena lotta per il suo terzo anello consecutivo contro i Toronto Raptors di Kawhi Leonard. Fu proprio il primo infortunio di Thompson, arrivato nel bel mezzo di una gara 6 che il tiratore stava giocando da fenomeno, a spianare definitivamente le porte del successo dei canadesi, nel loro primo titolo della storia.

Il primo infortunio, si, perché a distanza di una stagione e dopo aver trascorso oltre 12 mesi a recuperare dalla rottura del legamento crociato del ginocchio, proprio a ridosso della regular season del 2020 per Klay arriva una seconda doccia gelata: rottura del tendine d'Achille. È novembre del 2020 e i Warriors si avviano a giocare un'altra stagione che si rivelerà fallimentare, la seconda di fila senza lo Splash Brother n.2, il complemento storico di uno Steph Curry che prova faticosamente a tenere in alto il livello della squadra dovendosi però rassegnare a un'annata senza infamia né lode.

E quando ai nastri di partenza del 2021-22 il rientro di Klay è solo potenzialmente nell'aria ma non ancora fissato, ipotizzare una Golden State di nuovo così competitiva dopo gli ultimi 2 fallimentari anni appare un azzardo per tutti, per questioni anagrafiche dei suoi leader, per l'incognita legata proprio al recupero totale di Thompson, per una Conference super competitiva come sempre, per i dubbi che circondano il supporting cast di Curry, per i pochi centimetri sotto canestro di un roster che sulla carta dovrebbe duellare con Anthony Davis, DeAndre Ayton, Rudy Gobert, Nikola Jokic, senza parlare dei due spauracchi della Eastern Conference Joel Embiid e Giannis Antetokounmpo.

Un capolavoro costruito nel tempo

Quello che ai più sfugge, in realtà, è come nei due anni post-Finals i Warriors avessero sì rinunciato a ogni ambizione di anello, ma nascondendo dietro le stagioni apparentemente anonime un lavoro di costruzione di un nuovo core in grado di completare al meglio i Big 3 una volta rivisti assieme in campo. Ed è così che, in attesa che la data del rientro di Thompson diventi ufficiale, Steve Kerr lavora su ragazzi come Jordan Poole, Kevon Looney, Jonathan Kuminga, giovani e giovanissimi ma plasmati secondo le esigenze della pallacanestro di casa Dubs, o su giocatori più navigati come il tanto vituperato Andrew Wiggins, derubricato da star in quel di Minnesota a perfetto ingranaggio di sistema, tra difesa e tiro dal perimetro. Un progetto tecnico studiato in ogni minimo dettaglio e reso prima ottimale dalla presenza di Steph Curry, la cui gravity continua a essere l'essenza del gioco offensivo e delle spaziature della squadre, poi letale col ritorno in campo di Thompson. Che pur non avendo la continuità, l'esplosività fisica, la tenuta sulla distanza del giocatore di 3 anni fa crea un altro bersaglio a cui ogni difesa avversaria, stordita dalla coppia Curry-Poole, deve fare attenzione. Con effetti, appunto, devastanti e sotto gli occhi di tutti.

Battezzare uno solo dei 3 vuol dire prestare il fianco a una quasi sicura tripla mandata a segno. Raddoppiarli o triplicarli espone ai tagli degli altri due giocatori in campo. La Golden State dei Big 4, quella che in Kevin Durant aveva appunto trovato il killer pronto a punire ogni errore della difesa, si evolve e reinventa nuove bocche da fuoco attorno ai due Splash Brothers, in una rinascita che rinvigorisce il leader emotivo e vocale della squadra Draymond Green, genera nuovo entusiasmo nei tifosi, e riaccende la passione di una franchigia che stanotte raggiunge la sesta finale nel giro di 8 anni, come riuscito per ultimo ai Chicago Bulls di Michael Jordan. Un traguardo che si rispecchia nella nuova vita sportiva di Klay Thompson, che a 137 giorni dalla prima partita rigiocata dopo i 3 anni di calvario è il migliore dei suoi e ora lancia la sfida a una tra Miami Heat e Boston Celtics, che tra qualche ora si giocheranno gara 6 della finale a Est. Chiunque ne uscirà da vincitrice è ben consapevole di cosa si troverà di fronte.

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