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Opinioni

Quel pasticciaccio brutto di Via Nazionale

Il decreto sulla rivalutazione delle quote di Bankitalia ha sollevato una bagarre in Parlamento e un polverone mediatico. Ma che è successo e cosa comporterà? Cerchiamo di capirlo…
A cura di Luca Spoldi
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Il decreto legge “Bankitalia-Imu” scatena la bagarre alla Camera e divide l’opinione pubblica, con M5S che grida allo scandalo, parla di un “regalo” che il governo avrebbe voluto fare alle banche private, mentre altri paventano addirittura che la Banca d’Italia possa un domani finire comprata da qualche banca straniera.  Ma cosa esattamente è successo e quali conseguenze si produrranno per il sistema bancario italiano e per l’economia reale? Tentiamo di procedere con ordine, anzitutto sgombrando il campo da qualche equivoco.  Anzitutto la Banca d’Italia è un istituto di diritto pubblico (come ribadito dalla Corte di Cassazione a sezioni riunite, con sentenza 16751 del 21 luglio 2006) e non segue le consuete regole di funzionamento di un qualsiasi istituto privato: in particolare lo statuto rinnovato poco prima di Natale (“recependo” in anticipo i contenuti del decreto legge di cui sopra) attribuisce (art. 3, comma 4) un diritto di voto non proporzionale al numero di azioni possedute da ciascuna banca-socia (sopra il 5% diritti di voto e dividendi vengono sterilizzati).

Il capitale della Banca d’Italia era fermo dal 1936 a ieri a 156 mila euro, ovvero i 300 milioni di vecchie lire, suddivisi in 300 mila azioni da mille lire, versati all’epoca da banche pubbliche poi privatizzate nel corso dei decenni oltre che da alcuni enti come Inps e Inail, tuttora pubblici (se volete, l’elenco completo dei partecipanti al capitale di Via Nazionale è pubblicamente consultabile). Sempre per statuto è disposto che “le  quote di partecipazione possono appartenere esclusivamente ai soggetti indicati dalla legge”: impossibile dunque una “scalata ostile” alla Banca d’Italia, meglio ancora impossibile che esista un mercato propriamente detto, il che come si vedrà è un problema. Inoltre, come ricorda la Bce nel suo parere, il decreto legge, nel disporre un aumento di capitale (da 156 mila euro a 7,5 miliardi) ha previsto l’imposizione di un limite massimo all’attribuzione di dividendi sugli utili netti “pari al 6% del capitale e con l’esclusione di ogni pretesa sulle riserve statutarie della Banca d’Italia”.

Qual è allora il problema: si stanno forse regalando soldi alle banche consentendo una rivalutazione delle quote detenute (perché di questo si tratta: non si è avuto alcun movimento di denaro ma solo, con un tratto di penna, la rivalutazione del valore nominale del capitale sociale)? Neanche per sogno, semmai è vero l’opposto come ricordava in queste ore anche su Twitter l’economista Carlo Alberto Carnevale Maffè: di fatto le banche si vedono addossare un ulteriore onere fiscale certo (perché cresce il loro attivo patrimoniale, gonfiandosi il valore delle “attività finanziarie detenute per la negoziazione”), ed un domani saranno tassate su "plusvalenze" quando cederanno le quote eccedenti il 5%, senza peraltro la certezza che la Bce consideri questa rivalutazione nominale valida ai fini del calcolo del Core Tier 1 (il capitale di migliore qualità che una banca deve detenere a fronte dei prestiti che effettua).

Per le banche il rischio è di finire “cornute e mazziate”: pago oggi più imposte, senza essere certo di poter evitare nei prossimi mesi nuovi aumenti di capitale che come ho già segnalato più volte sono sempre più probabili quando non certi. Di più: chi sostiene che le banche sono comunque “ben remunerate” per questo loro sforzo da una politica dei dividendi certa (come pare indicare l’art 40 del nuovo Statuto secondo cui l’utile netto è destinato “ai partecipanti, fino alla misura massima del 6 per cento del capitale”) delle due l'una: o sottintende una ingerenza delle banche (o in loro vece del governo italiano) nelle decisioni del Consiglio superiore di Banca d’Italia cui spetta appunto deliberare la ripartizione dell’utile, di fatto ledendo l’autonomia di Banca d’Italia che il decreto vorrebbe rafforzare e prefigurando una premeditata distribuzione a soggetti privati di utili derivanti dall’attività di signoraggio della Banca d’Italia stessa, o fa finta di credere che in futuro Banca d’Italia non potrà che “autonomamente” distribuire con generosità utili “perenni”, riuscendo in qualche modo a dimostrare di aver sempre agito, come espressamente richiesto, in modo “pienamente conforme al quadro prudenziale e al sistema contabile dell’Unione europea” come richiesto dalla Bce.

Ultima ma forse più importante considerazione per “l’uomo della strada”: ogni esultanza perché con questa norma si darebbe fiato al sistema creditizio italiano, consentendo un rafforzamento patrimoniale utile a superare senza danni l’Asset quality review e gli stress test della Bce è del tutto fuori luogo e prematuro. Postulare poi che da questo possa derivare un allentamento della stretta sul credito che sta strangolando l’economia italiana è a dir poco irrazionale, essendovi semmai il rischio opposto: che le maggiori tasse per le banche si traducano in maggiori costi e/o in minori prestiti per la clientela. Ammettiamolo: il provvedimento di rivalutazione delle quote di Banca d’Italia, atteso da anni e da anni oggetto di un discreto mercanteggiamento tra le banche da un lato e il governo dall’altro, poteva essere fatto meglio, molto meglio.

Se poi si tratta di un gioco delle parti, con l'ex governatore di Banca d'Italia, Mario Draghi, chiamato a "fare la sua parte" per dare una sembianza di credibilità a tutta la costruzione e "pararci la palla" di fronte ai partner europei, personalmente mi resta un dubbio: non si faceva prima a chiedere un allentamento dell’austerità fiscale europea, magari impegnandosi a varare quelle riforme strutturali che, nel giusto ordine, potrebbero consentire un rilancio dell’economia tricolore molto più che una manovra contabile discutibile se non censurabile? Perchè al di là di tutti i barocchismi contabili/lessicali una cosa deve essere chiara a tutti: senza crescita l'Italia ha di fronte a sè un futuro di progressivo impoverimento, null'altro. E la crescita, se non muteranno le "condizioni ambientali", è destinata a restare una chimera o al più un fatto meramente statistico, come gli ultimi debolissimi dati relativi alla produzione industriale (in frazionale recupero a novembre, ma ancora a livelli distanti anche solo da quanto visto a fine 2007) hanno loro malgrado testimoniato.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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