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La guerra uccide anche la dialettica: torti e fallacie sull’invasione russa in Ucraina

Non si può discutere sotto le bombe, ma chi ha la fortuna di non subire in prima persona le azioni militari deve imparare a riflettere, senza replicare le dinamiche belliche nel dibattito civile.
A cura di Roberta Covelli
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Sono passati quasi otto mesi dall’invasione russa in Ucraina. Sembra di rivivere, nella cronaca, quel che pensavamo di aver relegato al passato, alla storia. In realtà la guerra, le provocazioni, le rappresaglie, le azioni militari e le vittime civili si sono viste già prima dell’inasprirsi della tensione tra Mosca e Kiev.

Alla vigilia della pandemia, la Siria continuava a essere bombardata, in Libia regnava il caos, con l'avanzata di Haftar e le prospettive di schieramenti militari della Turchia di Erdogan. Intanto Trump si vantava dell’uccisione di un generale iraniano e Teheran rispondeva con i missili sulle basi USA in Iraq. Gli scenari bellici, attuati o potenziali, riguardavano India e Pakistan, ma anche la Birmania, il Sud Sudan, la Repubblica Centrafricana, lo Yemen, per non parlare di dittature e restaurazioni, come in Afghanistan.

L’Ucraina, però, è nel cuore dell’Europa. Forse l’immedesimazione è più semplice, forse il coinvolgimento deriva dall’attenzione ai nostri interessi.

Ed ecco perché, tra tv, giornali, social e bar, ne discutiamo di più. Spesso, però, ne discutiamo male.

Si tifa allo stadio, non in guerra

"Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti", scriveva Gramsci più di un secolo fa. Osservare la realtà ed essere in grado di schierarsi a favore dell’oppresso e contro l’oppressore è un esercizio politico virtuoso, da coltivare. Un’azione bellica, però, perfino la più giustificata e corretta (sempre che esista), non è un gol: esultare per atti che nel migliore dei casi causano distruzioni materiali, quando non stragi, mutilazioni, contaminazioni, e che possono diventare pretesti per reazioni, rappresaglie ed escalation, significa ignorare la realtà, falsificarla in una versione agonistica che non esiste se non nella propaganda.

Il semplicismo polarizzato tra fiaba e dicotomia

Questo approccio semplicistico è alla base di molte narrazioni tossiche sulla guerra. Aut aut, di qua o di là, si sceglie in base a dicotomie. C’è la versione con Zelensky eroe ucraino, il presidente onesto di una nazione perfetta, socialmente virtuosa, compiutamente democratica, che difende il suo popolo dall’invasore. Sull’invasione certo non c’è da dubitare, sulla sua ingiustizia nemmeno, sulla necessità di difesa neppure: il problema è l’eliminazione di ogni macchia dal percorso politico interno di Kiev. Si tratta di una semplificazione fiabesca che si porta avanti nonostante nessun errore, nessuna eventuale immaturità democratica ucraina, potrebbe legittimare l’invasione militare russa. Una narrazione simile, con eroi senza macchia e senza paura, serve alla polarizzazione: non è solo l’individuazione netta di buoni e cattivi, ma l’estremizzazione delle loro caratteristiche, positive o negative.

Ma questa non è l’unica versione di dicotomia fallace relativa alla guerra in Ucraina. Allargando il campo, ma conservando la polarizzazione semplicistica, abbiamo il dualismo tra Putin e la Nato, tra gli imperialisti occidentali guerrafondai e il presidente di ferro che questa volta non ci sta. Inutile dire che anche questa dicotomia, idealizzandone i protagonisti e polarizzando le posizioni, non aiuta l’analisi, né il dibattito.

Il rischio opposto dell’ipocrisia neutrale

Evitare il tifo e diffidare da narrazioni retoriche e polarizzate non significa però pensare che torti e ragioni possano essere assegnati nella perfetta via di mezzo della totale neutralità. Esiste una specifica fallacia in tema, detta argumentum ad temperantiam. Questo trucco logico consiste nel sostenere che la ragione stia sempre nel mezzo tra diverse posizioni contrapposte.

Attraverso questa fallacia si impone quindi un falso compromesso: se qualcuno sostiene che il cielo sia blu e qualcun altro afferma invece che il cielo è giallo, non possiamo certo concludere dichiarando il cielo verde. Allo stesso modo, non possiamo sostenere che tutte le ragioni di questo conflitto abbiano legittimità, né stare in una posizione equidistante tra Russia e Ucraina. Di fronte a un sopruso, la neutralità equivale spesso a parteggiare per l’oppressore.

Questa distinzione non implica però il rifiuto a priori di qualsiasi forma di negoziato e mediazione, né l'adesione acritica a qualunque tipo di supporto militare. Ed ecco che sul punto chi sostiene la nonviolenza finisce spesso per essere vittima di un’altra fallacia logica.

Generalizzazioni indebite e fantocci

Fin dall’inizio della guerra, e pure prima, diversi pacifisti hanno criticato l’invio di armi all’Ucraina e, più in generale, l'inasprimento del conflitto e le strategie volte non solo all’isolamento di Putin ma all’umiliazione della Russia. Questa posizione, complessa e discutibile, è stata distorta in un argomento fantoccio, lo strawman argument. L’idea che serva una mediazione tra le parti, che occorra proporre tregue e favorire tavoli di negoziato, e che si debba frenare l'escalation militare, viene tradotta come la pretesa di una resa incondizionata dell’Ucraina alle pretese russe.

Si dirà che qualcuno in effetti ha sostenuto e sostiene la necessità che l’Ucraina si arrenda. Ma prendere l’opinione di alcuni commentatori ed estenderla al pacifismo tutto equivale a operare una generalizzazione indebita (e banalizzare le riflessioni nonviolente).

Lo spettro di Hitler sul nemico da annientare

L’opposto della nonviolenza, e la base per la maggior parte delle guerre, è la creazione di un nemico. E non c’è modo migliore che cercare un avversario simile nel passato, nel modello di cattivo universalmente riconosciuto: Adolf Hitler. Esiste una fallacia, la reductio ad Hitlerum, che consiste proprio nel fare riferimento pretestuosamente ai nazisti.

Soprattutto nei primi giorni di invasione, meme, fotomontaggi, hashtag accostavano Putin a Hitler. Perché? Mimica e retorica del despota russo sono nettamente diverse da quelle del dittatore nazista. E l’invasione dell'Ucraina non è paragonabile all'Anschluss, l'annessione dell'Austria al Terzo Reich, tentata per quattro anni e infine attuata in due giorni; si potrebbe forse notare qualche analogia con l'invasione della Polonia, per la rivendicazione di territori propri e l'accusa di persecuzioni ai danni dei propri concittadini, ma sono questi pretesti comuni a molte guerre, non certo esclusiva delle offensive hitleriane. E la repressione dei dissidenti è tratto caratteristico delle dittature (e delle democrazie fragili), non avveniva soltanto con i nazisti. Quindi perché accostare Putin a Hitler? Perché è comodo, è facile, è semplificatorio e semplicistico: Hitler è il cattivo per eccellenza, quindi il giudizio di sintesi ci concede lo schieramento, il tifo ammantato di storicità, l’individuazione chiara del nemico da annientare.

Si tratta di una fallacia che ha usato pure Putin, che di propaganda se ne intende e che infatti, per spiegare l’invasione, si è appellato al dovere di "denazificare" l'Ucraina.

Sulla guerra o nella guerra?

Ma noi, che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case e che troviamo tornando a sera cibo caldo e visi amici (sì, è una specie di citazione), possiamo, e in un certo senso dobbiamo, discutere sulla guerra senza replicare quel che accade nella guerra.

La guerra è la sconfitta della dialettica, è l’occasione in cui alla giustizia, alla democrazia, agli spazi di dibattito si sostituisce la violenza, in cui prevale non la ragione ma il sopruso. La guerra è distruzione materiale e dissipazione morale, spiegava Pietro Pinna, uno dei primi obiettori di coscienza al servizio militare in Italia. In guerra i legami sociali vengono spazzati via, le famiglie vengono mutilate, le comunità vengono disperse. Il dibattito aperto, la paziente persuasione raramente sono opzioni percorribili sotto le bombe.

Ma se si ha la buona sorte di non essere direttamente coinvolti, di non dover studiare nelle stazioni della metropolitana per proteggersi da bombe e missili, come stanno facendo ancora in queste ore i bambini di Kiev, di non dover temere stupri di guerra e torture, di non rischiare di finire in fosse comuni, non si può sprecare una fortuna simile. Bisogna, almeno nel proprio piccolo, sforzarsi di ragionare e di dibattere, di ascoltare la posizione altrui e di impegnarsi nella persuasione, aperti all’argomentazione e alla sua discussione.

Questo sforzo dialettico, questa attenzione al confronto, è un paziente lavoro di crescita democratica che, se non potrà proteggerci dalla guerra di oggi, potrà magari garantirci una società più giusta domani, sempre che i capricci di governanti e guerrafondai ci concedano la continuazione delle nostre vite come le conosciamo ora. In questa fase storica, infatti, dopo aver aumentato per anni le spese militari, dopo aver venduto alla Russia (perfino sotto embargo) armamenti, non ci si può stupire degli effetti bellici di politiche bellicistiche. E non si può tacere l’inquietudine davanti a un ragionamento che di solito è fallace ma che in questo caso, purtroppo, non lo è.

La china pericolosa: una fallacia (purtroppo) non fallace

La fallacia della brutta china consiste nel prospettare arbitrariamente, come effetto della tesi contro cui si discute, una sequenza di conseguenze drammatiche, presentandole come inevitabili. La si vede spesso utilizzata in politica, su posizioni reazionarie: le unioni civili che disgregherebbero la famiglia naturale portando all’estinzione, la legalizzazione della cannabis che condurrebbe la società alla perdizione, eccetera.

Ma la guerra è una china pericolosa. Qualunque guerra si alimenta tramite una (apparentemente) inarrestabile sequenza di azioni e reazioni, cause e conseguenze. L’escalation militare, con l’attuale tecnologia bellica e la prospettiva di armi nucleari, è un pericolo tutt’altro che esagerato, che avrebbe effetti devastanti.

Questa non è una partita a Risiko

Per questo dovremmo pretendere dalle autorità nazionali e internazionali di smetterla di vivere questa guerra come un trend, come un’occasione social. Dichiarazioni tranchant, battutine, sfide su Twitter da parte di ministri e politici vari, più o meno coinvolti nel conflitto, oltre che del tutto fuori luogo, sembrano perdere di vista che tutte le guerre, se finiscono, devono finire con una pace. E la pace va costruita, non viene concessa dal destino o dal potente carisma dei buoni, come in un film di supereroi. Deve esserci un accordo, un compromesso. E, visto che non c’è pace senza giustizia, il compromesso non può certo essere l’annessione dei territori ucraini alla Russia, né l’accettazione delle pretese dell’invasore. Ma questa conclusione difficilmente si raggiungerà limitandosi a dire "la via d'uscita dal conflitto è con la Russia che se ne va dall'Ucraina", senza proporsi come intermediari delle condizioni di uscita, senza costruire occasioni di negoziato.

Mentre esponenti istituzionali anche di alto livello fanno gli splendidi blastando il cattivo, la guerra prosegue. E chiunque abbia vissuto una guerra potrà confermare che non è poetica: la poesia è casomai l’umanità che gli sventurati che la subiscono riescono a conservare dentro di sé, e a condividere. La retorica bellica, la propaganda che ammanta questa partita di Risiko vissuta a Bucha, Kyiv, Zaporizhzhia, Dnipro, Ternopil e Lviv, e prima di oggi sperimentata con maggior disinvoltura altrove, a Mosul come a Kabul, non può e non deve nascondere l’essenza della guerra. Perché la guerra è, e resta sempre e soltanto, "sangue, sudore e merda".

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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