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Opinioni

La (finta) Opzione donna della manovra Meloni è l’ennesimo sgambetto alle lavoratrici

Nel testo ufficiale del Governo si nota un gioco di prestigio sull’anticipo pensionistico: non solo resta la penalizzazione per le donne senza figli, ma la misura ricalca i requisiti già previsti per l’APE sociale. Così, non solo Opzione Donna sparisce pur venendo prorogata, ma si relegano ancora le donne al ruolo materno o di cura.
A cura di Roberta Covelli
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Il testo della manovra del governo Meloni è ufficiale. Quando ci sono di mezzo fondi, stanziamenti e coperture, il bagno di realtà è inevitabile, eppure, anche in questa fase, c’è spazio per la propaganda. La visione di destra del governo emerge, con l’annunciata abolizione del reddito di cittadinanza fino ai tagli alle carceri. Tra chi farà le spese, per l’ennesima volta, delle scelte politiche della legge di bilancio ci saranno anche le lavoratrici, in particolare quelle che ambiscono alla pensione e sarebbero interessate da Opzione Donna. Nel testo finale, infatti, come con un gioco di prestigio, la misura resta, eppure sparisce: per capire il trucco, bisogna fare un passo indietro.

Opzione donna: una sperimentazione quasi maggiorenne

Era il 2004 quando la legge 243 propose una sperimentazione: concedere un anticipo della pensione alle donne che avessero almeno 35 anni di contributi e 57 anni di età, qualora decidessero di optare per un sistema di calcolo interamente contributivo. Il sistema contributivo concede, nella maggior parte dei casi, un assegno minore rispetto a quello calcolato con il sistema retributivo. La proposta di opzione era allora semplice: anticipare il momento della pensione rinunciando all’assegno più redditizio. La legge prevedeva che questa misura fosse sperimentata per dieci anni, fino al 2015, quando il governo avrebbe dovuto verificare i risultati per valutare l’eventualità di una sua prosecuzione.

La prosecuzione c’è stata, ma ancora in via sperimentale. Dopo il 2015, infatti, Opzione Donna viene prorogata nella legge di bilancio, ogni anno, sempre uguale, con il solo adeguamento dell’età pensionabile all’aspettativa di vita (per il 2022, si richiedevano 58 o 59 anni di età, a seconda che la lavoratrice fosse subordinata o autonoma). Dopo la riforma delle pensioni del governo Monti, la prospettiva di Opzione Donna si è rivelata interessante per molte lavoratrici, altrimenti costrette a smettere di lavorare a 67 anni.

Per questo, di anno in anno, dal 2015 a oggi, si attende la fine di dicembre per sapere se Opzione Donna, che ormai viene sperimentata da diciotto anni, sarà prorogata, per un altro anno ancora.

Proteste e polemiche contro la prima proposta della manovra Meloni

Come ogni anno, allora, con l’autunno sono arrivate le prime indiscrezioni su conferme o modifiche di Opzione Donna. Così è stato anche con il neonato governo Meloni. Una prima proposta sembrava anticipare la pensione delle donne con figli: fermo restando il requisito dei 35 anni di contributi, si proponeva l’accesso alla misura a 59 anni per le lavoratrici con un figlio, a 58 per quelle con due o più figli e a 60 se senza figli.

A prima vista l’anticipo per le lavoratrici madri non sarebbe una novità né un problema: la maternità causa spesso difficoltà di impiego sul mercato del lavoro e può essere equo concedere delle compensazioni. Nel sistema previdenziale ci sono già alcune misure che computano il numero di figli per anticipare l’età pensionabile: per la pensione di vecchiaia, è previsto uno sconto contributivo di 4 mesi per ogni figlio, per l’APE sociale si anticipa l’uscita di un anno per ogni figlio (fino a un massimo di due anni). Si tratta insomma di una generale misura compensativa, che sembrava allargata a Opzione Donna.

Osservando la proposta governativa con più attenzione, però, ci si accorge che l’idea non era di anticipare la pensione per le lavoratrici madri, ma di ritardarla per le donne senza figli: non faceva star meglio alcune, faceva star peggio altre.

Di fronte a critiche, proteste e dubbi di incostituzionalità, il governo fa un primo dietrofront, prospettando la consueta proroga, senza legame con il numero di figli.

Il gioco di prestigio del governo: Opzione donna resta ma sparisce

Ora però il testo della manovra è quello ufficiale e Opzione donna c’è, con il legame al numero di figli. Non solo. Per accedere alla misura, oltre al requisito contributivo di 35 anni e a quello anagrafico di 58, 59 o 60 anni a seconda del numero di figli, vengono aggiunte altre condizioni: la lavoratrice deve assistere un familiare invalido convivente (o che non abbia altri conviventi che possano occuparsene), oppure presentare una riduzione della capacità lavorativa nella misura di almeno il 74%, oppure essere stata licenziata o dipendente di un’impresa in crisi.

Ma queste condizioni sono le stesse di un’altra misura previdenziale, l’APE sociale, una forma di anticipo pensionistico, anche questa sperimentale: in attesa della pensione, si corrisponde un’indennità a lavoratori o lavoratrici particolarmente fragili (perché caregiver, o con ridotte capacità lavorative, o senza lavoro, o che svolgano determinate professioni considerate gravose). L’ambito di applicazione dell’APE sociale, pur essendo una misura dedicata a una minoranza di lavoratori, è più ampio di quello previsto dalla nuova Opzione Donna proposta nella manovra del governo Meloni. Di fatto, allora, Opzione Donna resta, compreso il colpo politico-ideologico della discriminazione delle donne senza figli (invece della legittima compensazione per le lavoratrici madri), ma si sovrappone a un’altra misura. Esiste nella legge, ma ridefinito al punto da confondersi con altro e, quindi, non esistere più. Il tutto a danno delle lavoratrici, madri o non.

Donna, madre: non bastano leader femminili per una politica di genere

Quest’ultima misura, sia che venga confermata dal voto parlamentare, sia che resti soltanto una proposta propagandistica di governo senza tradursi in legge, è l’ennesimo caso in cui si definisce la donna sulla base del modello tradizionale di madre amorevole che si sacrifica per la famiglia. Quel modello tradizionale, però, è imposto da una società (e da una politica) incapace di riconoscere i rapporti di causa ed effetto: le lavoratrici sono vittime di un costante circolo vizioso, che le definisce solo per il ruolo di cura a cui spesso vengono relegate. Le donne sono più portate alle attività di cura o il loro impiego in questo campo deriva da un’educazione improntata fin dai primi anni di vita a questa tendenza? Le lavoratrici fanno meno carriera perché devono seguire la famiglia o seguono la famiglia perché hanno scarse prospettive di carriera?

Giorgia Meloni è in politica da vent’anni, con un’identità di destra forte, eppure nei comizi si definisce donna e madre (e italiana, e cristiana): la rivendicazione della figura femminile e materna, archetipica quanto stereotipata, è una comunicazione emotiva, ma sottintende una precisa visione politica. E questa visione politica non è solo comunicativa, ma si ritrova nelle proposte del governo.

Basta leggere tra gli "Appunti per un programma conservatore", il programma ufficioso di Fratelli d’Italia, sottoscritto da Giorgia Meloni. Nel capitolo sul lavoro, il tema dell’occupazione femminile è risolto con due parole chiave: asili nido aziendali e smart working per le donne con figli. Per la destra, insomma, l’unico problema del lavoro femminile risiede nella conciliazione con la maternità e la soluzione è premiare le aziende che concedano alle donne di lavorare da casa, così da potersi prendere cura dei figli mentre contribuiscono all’attività dell’impresa.

Il governo nato da quelle idee le conferma nelle sue proposte: dal mese aggiuntivo di congedo parentale, che però riguarda solo le madri, e non i padri, fino a questo trucco della manovra su Opzione Donna, che si applica solo se la lavoratrice è al di fuori del mercato del lavoro o se si occupa della cura di un familiare con disabilità (e, se non ha figli, peggio per lei).

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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