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Il disastro della sanità è nei numeri del Piano straordinario: 23 anni di sprechi e ritardi

La Corte dei Conti certifica la cattiva gestione dei progetti in campo sanitario. Con una serie di mancanze che si trascinano da oltre 20 anni. E costate oltre un miliardo di euro gestito nella maniera peggiore possibile. Da Nord a Sud. Il prossimo governo è chiamato ad affrontare anche questa sfida.
A cura di Stefano Iannaccone
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di Carmine Gazzanni e Stefano Iannaccone

L’assistenza sanitaria prima di tutto. L’emergenza Covid-19 ha messo tutti d’accordo, maggioranza e opposizione, sull’esigenza di lavorare su un nuovo modello di sanità che sia più vicina ai territori e alle persone. L’aveva detto il governo Conte 2, l’ha lasciato intendere anche Mario Draghi, l’ex presidente della Bce e oggi premier incaricato da Sergio Mattarella di formare un nuovo esecutivo. Determinante, dunque, sarà indirizzare il Recovery Plan per creare un sistema di assistenza territoriale più incisiva di quanto lo sia oggi. Specie nei grandi centri. Peccato però che in realtà fondi finalizzati proprio alla «riorganizzazione e riqualificazione dell’assistenza sanitaria nei grandi centri urbani» c’erano già, ma sono stati spesi negli anni poco e male, con interventi in alcuni casi mai ultimati o addirittura mai partiti. È questo ciò che emerge da una dettagliata relazione della Corte dei conti, che Fanpage.it ha potuto visionare, relativa a un Piano straordinario ad hoc, nato addirittura nel 1998. Parliamo, dunque, di 23 anni nel corso dei quali sono stati stanziati in totale 1.176.386.762,60 euro. Non proprio bruscolini.

«Giova evidenziare – spiegano peraltro i magistrati contabili – che tra gli obiettivi principali della norma vi sia il perseguimento di standard di salute, di qualità e di efficienza dei servizi da erogare soprattutto nei centri urbani situati nelle aree centro-meridionali che, al riguardo, registrano ancora sensibili ritardi rispetto alle grandi metropoli del settentrione». Esattamente gli stessi obiettivi di cui oggi si parla in relazione al Recovery Plan.

Ma quali sono stati i risultati raggiunti? Inizialmente erano stati previsti 302 interventi in tutta Italia. Un numero ragguardevole di progetti. Peccato poi siano stati rimodulati a 258. E ne siano stati conclusi solo 206. Per il resto 23 sono ancora in esecuzione, 10 sono stati sospesi e 19 sono mai partiti. Di fatto, solo un intervento su tre di quelli previsti ben 23 anni fa, e nonostante la mole di fondi a disposizione, è stato portato a termine. In questo quadro di lentezza burocratica e lavori fermi, ci sono alcuni casi che eloquentemente lasciano pensare. «Dal punto di vista operativo – spiega ancora la Corte dei conti – gli stati di avanzamento delle iniziative mostrano alcune regioni, come, in particolare le Marche e il Piemonte, ancora attestate su valori particolarmente bassi».

Ma il caso più eclatante arriva dalla Calabria: qui «non è stato ancora avviato alcun progetto nonostante siano stati già stanziati alla regione tutti i fondi previsti». E parliamo non di pochi soldi considerando che dalle tabelle riportate nella lunga relazione in Calabria sono arrivati circa 34 milioni di euro. Di fatto le opere di modernizzazione, ricostruzione o realizzazione ex novo di ospedali e strutture affini per l’assistenza territoriale previste da questo Piano straordinario sono state concluse solo in poche regioni: Veneto, Emilia-Romagna, Abruzzo, Campania e Basilicata. Nelle già citate Marche si prevedevano inizialmente 45 interventi, ma solo 11 sono stati completati; in Piemonte 19 portati a termine su 44; e in Sicilia 42 su 60 complessivi. Non va meglio nel Lazio, regione in cui si erano previsti – per un importo pari a 208 milioni di euro totali – due macro interventi, uno relativo a lavori di ampliamento e modernizzazione del Policlinico Umberto I, e l’altro relativo all’ospedale Sant’Andrea. Se per quest’ultimo i lavori «sono stati quasi conclusi negli anni, mancando oggi solo un corpo di fabbrica», situazione completamente diversa è quella del Policlinico. In totale nel corso degli anni il Gemelli si è visto toccare da ben cinque diversi progetti (quello iniziale più quattro modificativi).

Il risultato finale? «Dopo innumerevoli modifiche progettuali, motivate dall’evolversi di particolari esigenze tecniche (il primo progetto del 2004 è stato modificato per vincoli paesistico-ambientali che hanno impedito il completo abbattimento di determinati edifici), non si è ancora provveduto alla concreta realizzazione delle opere che, attualmente, sono in fase di progettazione esecutiva». Calende greche e laziali, dunque. Tanto che, se il costo complessivo previsto per gli specifici interventi ammonta ad oltre 100 milioni di euro, «dopo oltre venti anni sono stati spesi soltanto circa 5 milioni euro (occorsi unicamente per far fronte al saldo delle spese tecniche iniziali)». Un disastro clamoroso che, forse, in una situazione come quella che abbiamo vissuto sarebbe potuto tornare utile.

C’è da dire, però, che il mondo dell’incompiuto sanitario è ancora più vasto di quel che si creda. A guardare i dati del sistema di monitoraggio delle opere incompiute in capo al ministero delle Infrastrutture troviamo tanti progetti mai arrivati a termine, e che riguardano proprio ospedali, rsa, laboratori sanitari. Nelle Marche, ad esempio, si prevedeva la «costruzione di un nuovo Pensionato e di una Residenza Sanitaria Assistenziale per 60 posti letto» ad Ancona. Nonostante gli 8 milioni di importi previsti, l’opera non risulta completata e oggi fruibile. Esattamente come la «Casa della Salute» a Rignano Flaminio nel Lazio: dalle schede consegnate dalla Regione Lazio al Mit risultano necessari interventi per 3 milioni di euro. Ancora peggio va in Molise: da anni si prevede di realizzare un nuovo ospedale ad Agnone, in provincia di Isernia, ma «i lavori di realizzazione, avviati, risultano interrotti oltre il termine contrattualmente previsto per l'ultimazione». Quanto ancora è necessario per aprire la struttura? 42 milioni di euro.

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