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È morto l’operaio indiano dal nome impronunciabile, ma non ce ne frega niente

I braccianti indiani dovrebbero smettere di tagliarsi le braccia e morire per far dispetto ai padroni.
A cura di Saverio Tommasi
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Satnam Singh
Satnam Singh

Si fosse chiamato Mario o Arturo, fosse stato avvocato, o anche il dipendente di un negozio di intimo, ci avremmo fatto più caso. Invece era un bracciante indiano e allora "ci sta".
L'unica foto che abbiamo di lui è sfocata. Neanche guarda dritto in camera, non accenna neanche un sorriso. Impensabile, se si fosse chiamato Tommaso, o Edoardo.

Il braccio staccato pesa di più, se sei italiano. Se ne accorgono tutti quando si stacca un braccio, se hai la pelle bianca e l'orologio al polso. È più facile l'indignazione. Le braccia dei lavoratori stranieri, invece, hanno un peso specifico minore. Si staccano e neanche te ne accorgi, o quasi.

Si somigliano tutte le storie degli schiavi in campagna, nei campi per raccogliere frutta e verdura fresca di stagione, quella con il bollino nazionale, mica come la verdura importata, che non si sa mai da chi viene raccolta. Invece qui lo sappiamo benissimo: viene raccolta da schiavi senza contratto, che qualche volta ci lasciano un braccio, o si dimenticano di aver salva la vita a fine turno.
Chi si ribalta sotto il trattore, chi inciampa, chi si taglia. Le storie si somigliano tutte, e al principio erano accomunate tutte da molta speranza, rimasta poi un giorno sotto una zolla o incagliata sul ramo di un albero da frutta.

Satnam Singh non lavorava in una libreria, in tv o in banca. Era solo un bracciante, e da un bracciante straniero ti aspetti che sopravviva, ma neanche sempre, infatti questa volta è morto, con un braccio mozzato, dopo che il titolare dell'azienda lo ha scaricato in mezzo a una strada, e il braccio mozzato messo in una cassetta. Staccato dal corpo, il braccio, pesava come venti pomodori o dodici zucchine.

L'insostenibile leggerezza dell'essere bracciante.

Se si fa male un bracciante indiano nell'azienda di tuo figlio, con tuo figlio accusato di omissione di soccorso e omicidio colposo per averlo scaricato in mezzo alla strada, puoi anche trovare normale rilasciare un'intervista in cui dici "è stata una leggerezza dell'operaio, costata cara a tutti", anche se il macchinario per il taglio del fieno – dove il braccio è stato reciso – è il tuo. La coscienza è più leggera, se il morto ha un nome impronunciabile per chi è nato a Latina.

Non è una novità: l'eco dipende dalla posizione sociale del morto. Il nostro dolore da quanto ci somiglia. Tre giorni fa sono finiti in mare 26 bambini che tentavano di arrivare in Italia con i genitori, qualche parente o in alcuni casi senza nessuno. Sono finiti tutti in fondo al mare. Fossero morti 26 bambini alle giostre, in un qualsiasi quartiere di una qualsiasi città italiana, sarebbe stato diverso. Fossero morti 26 bambini a scuola ne avrebbe parlato il Paese, per settimane. Invece questi 26 non giocavano alle giostre e non studiavano a scuola, cercavano solo di raggiungere l'Italia. Troppo poco, per fare indignare un Paese. Il peso specifico di 26 bambini è sommesso, somiglia a quello del braccio di un operaio indiano.

In Italia da gennaio ad aprile 2024 si contano 268 vittime del mancato rispetto delle norme di sicurezza sul lavoro, ma le zucchine sono buone e non possiamo pagarle un occhio della testa. C'è bisogno di tenere i prezzi bassi, continuiamo pure a pagarle il braccio di un operaio indiano.

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Sono giornalista e video reporter. Realizzo reportage e documentari in forma breve, in Italia e all'estero. Scrivo libri, quando capita. Il più recente è "Siate ribelli. Praticate gentilezza". Ho sposato Fanpage.it, ed è un matrimonio felice. Racconto storie di umanità varia, mi piace incrociare le fragilità umane, senza pietismo e ribaltando il tavolo degli stereotipi. Per farlo uso le parole e le immagini. Mi nutro di video e respiro. Tutti i miei video li trovate sul canale Youmedia personale.
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