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Covid 19

Così il Coronanvirus ha mostrato che l’Italia è un malato terminale

La crisi del Coronavirus potrebbe dare il colpo di grazia a un sistema-paese che s’illudeva di poter gestire la politica, l’economia e la salute pubblica tenendosi in equilibrio sul filo del rasoio. Ma a furia di rimandare i problemi, questi riemergono tutti in una volta sola. Un estratto dal libro “Radical choc. Ascesa e caduta dei competenti” di Raffaele Alberto Ventura.
A cura di Redazione
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Estratto dal libro ‘Radical choc. Ascesa e caduta dei competenti' di Raffaele Alberto Ventura:

C’erano già pochi dubbi sul fatto che il Paese fosse un malato terminale, incamminato verso un inesorabile declino economico: ma i declini possono durare decenni o anche secoli, subire accelerazioni oppure piccoli rimbalzi, ed è quindi difficile fare previsioni precise sulle modalità del decorso. Quando pensiamo al collasso di un sistema, tendiamo spesso a immaginarlo improvviso o lineare. Improvviso: come se dovesse presentarsi il crollo simultaneo di tutti i sottosistemi che lo compongono, dal tessuto economico a quello istituzionale, ignorando però che ogni sottosistema ha le sue specifiche soglie di resistenza. Lineare: come se si trattasse di un processo continuo, mentre invece è discreto, a salti, in quanto ogni shock viene assorbito finché non supera una certa soglia critica. Invece nella realtà succede che per un lungo periodo le criticità tendano ad accumularsi, fino a quando non si presenta un elemento scatenante che satura un sottosistema e da lì progressivamente tutti gli altri. Insomma, il collasso non è né improvviso come il crollo di una montagna, né lineare come la tettonica delle placche, bensì discontinuo come uno sciame sismico.

La complessità di un sistema lo espone a una maggiore fragilità, perché ogni elemento dipende da tutti gli altri in maniera spesso imprevedibile. Il matematico James P. Crutchfield, riflettendo sulle conseguenze della crisi finanziaria del 2008, aveva parlato a tal proposito di «fragilità invisibili», le quali emergono in contesti come l’economia mondiale, il trasporto aeronautico, il cambiamento climatico o la diffusione delle pandemie. Ogni strato di complessità aggiunge un potenziale di vulnerabilità in più, e ogni minuscolo errore (tecnico o umano) rischia di essere amplificato interagendo con la totalità del sistema. Ad esempio, nel caso della crisi dei subprime, i modelli di calcolo del rischio si erano rivelati particolarmente sensibili a certi cambiamenti nell’economia reale non conformi alle aspettative. In effetti, ogni sistema può essere considerato come un sottosistema che appartiene a un macrosistema più grande, quello della società nella sua interezza, tanto più complesso e imprevedibile quanti sono i sottosistemi al suo interno. Secondo Crutchfield, viviamo in un «vero e proprio circo di fallimenti sistemici – fallimenti nel funzionamento, fallimenti nella progettazione e fallimenti nella comprensione».

L’epidemia ha agito, nell’ipotesi migliore, come rivelatrice di una fragilità latente; nell’ipotesi peggiore, ha dato il colpo di grazia a un sistema-Paese che si illudeva di poter gestire la politica, l’economia e la salute pubblica tenendosi costantemente in equilibrio sul filo del rasoio – ad esempio, accettando dei reparti di terapia intensiva in sofferenza ogni inverno. Una strategia che funziona (pressappoco) in tempi normali, ma che non permette di sopportare alcuno shock imprevisto. Una strategia, d’altra parte, che faceva di necessità virtù in un Paese in cui, con la crescita ferma e un’elevata evasione fiscale, appariva impossibile finanziare i servizi pubblici all’altezza dei bisogni sempre crescenti.

Le testimonianze dei reparti di terapia intensiva nel Nord Italia hanno iniziato a suscitare preoccupazione fin dalla seconda settimana di febbraio 2020: offerta saturata, pazienti nei corridoi, turni lunghissimi, medici convocati dalle vacanze… Tuttavia queste notizie non sembravano una novità, poiché già nel 2018 i quotidiani parlavano di «terapie intensive al collasso per l’influenza», difficoltà ad accogliere pazienti e turni straordinari.

Poiché un sistema sanitario in queste condizioni non può permettersi nessuno scarto rispetto alla propria capacità di ricezione, il contenimento drastico dell’epidemia è apparso subito come una misura inevitabile. Ma quante sono le misure inevitabili che dovremmo adottare per evitare tutti i rischi che minacciano la nostra società? L’elenco è lungo. Di fatto, i ritardi nella reazione al COVID-19 sono comprensibili nel contesto di un sistema che è sottoposto senza sosta a feedback catastrofici: a forza di dover prendere decisioni sulla base di perizie e pareri concepiti all’insegna della massima precauzione, e dopo il costosissimo «falso allarme» dell’influenza aviaria del 2009, i decisori si sono abituati a dubitare dei pareri degli esperti, applicando a questi ultimi una pesantissima tara. In altre parole, il sistema è diventato insensibile agli allarmi a causa dell’eccesso di rumore – confermando nella realtà quel fenomeno chiamato Cry Wolf Effect, l’effetto «al lupo al lupo».

Se diamo ascolto alle rivendicazioni degli esperti dai quali dipende a ogni livello la nostra esistenza, la quantità di risorse necessarie per operare nelle migliori condizioni non è mai sufficiente, perché il sistema convive normalmente in mezzo a innumerevoli potenziali pericoli e passa il tempo a lanciare allarmi che si perdono nel rumore generale. Le risorse non scarseggiano solo nei reparti di terapia intensiva, ma nell’intero sistema sanitario, e le cose non vanno meglio altrove: pensiamo alle frequenti proteste per le difficoltà finanziarie della scuola, dell’università, del sistema carcerario, della giustizia, delle infrastrutture pubbliche, persino delle forze armate. Dopo il COVID-19, tutti sembrano d’accordo nel dire che gli ospedali dovrebbero avere la priorità, ma non c’è una categoria che nel corso degli anni non abbia tirato a sé un lembo della coperta, ricorrendo alla retorica emergenziale del «sistema allo stremo». Di fatto, questi settori sono sottofinanziati rispetto ai loro bisogni, perché costretti a consumare sempre più risorse per rispondere a una quantità maggiore di sollecitazioni. Le condizioni di vita nelle società industriali, in un pianeta interconnesso, portano a un’esplosione di rischi – sociali, sanitari, climatici – che esigono attenzione, di fronte ai quali le istituzioni hanno funzionato, nel corso degli anni, subendo uno stress crescente. Hanno resistito, dandoci l’illusione di poter resistere all’infinito. Finché non è arrivato il «cigno nero», l’evento imprevisto.

Di regola, ogni sottosistema ha la possibilità di scaricare le tensioni che subisce su un altro sottosistema; in altre parole, si può risolvere un problema spostandolo altrove, finché esiste un sottosistema in grado di assorbirlo. Ad esempio, la bassa produttività dell’economia italiana è stata compensata dalla riduzione del costo del lavoro, a sua volta tamponata dal risparmio privato delle famiglie. Da parte sua, il progressivo sfilacciamento della sovranità nazionale a beneficio di una moltitudine di micropoteri – regioni, partiti, ministeri, forze economiche, parti sociali ecc. – ha avuto il suo culmine nella caotica gestione della crisi epidemica. Anche questo non poteva funzionare all’infinito: mai prima d’ora era apparsa così drammatica l’incapacità del governo centrale di prendere decisioni chiare, attenervisi e imporle a ogni livello. In generale, nel corso dei decenni molti problemi sono stati neutralizzati scaricandoli sulla sfera economica, cioè contraendo ulteriori prestiti sul mercato del debito: presto però la saturazione di questo sottosistema, con la retroazione della spesa per interessi sulla crescita del PIL, ha generato conseguenze sempre più difficili da gestire. Negli ultimi anni, sono soprattutto due le sfere – o le dighe – su cui questa immensa mole di criticità ha finito per essere scaricata: quella ecologica e quella finanziaria. Era ed è difficile fare previsioni, perché a ogni sottosistema corrisponde una specifica area di competenza, la quale tende a ignorare gli effetti che ogni azione presa all’interno del suo perimetro produce sugli altri sottosistemi.

Ogni sforzo compiuto in direzione di una maggiore sicurezza è anche un passo verso la bancarotta del sistema, che crollando porterebbe a galla in un colpo solo tutti i rischi. Al ritmo al quale continuano a emergere nuove minacce sanitarie, sociali, climatiche, criminali e militari, quanto potremo resistere ancora? Certo, per ogni problema possiamo trovare una soluzione, ma ogni soluzione ha un costo. E potremo spostare i nostri problemi da un sottosistema all’altro soltanto finché ci sarà un sottosistema in grado di assorbirli: dal sistema sanitario al sistema economico, dal sistema economico all’ecosistema globale.

Da troppo tempo le tessere del domino erano in fila, una dietro l’altra. In una situazione predisposta al collasso, è bastato un evento imprevisto per scatenare la reazione a catena. Così il virus ha innescato delle ripercussioni di sottosistema in sottosistema, dai danni alle imprese commerciali, già sofferenti, alle rivolte nelle carceri, già troppo piene. Poi abbiamo assistito alle difficoltà della filiera alimentare, ancorata ai flussi di lavoratori dal Sud verso il Nord, e ancora agli effetti sulla complessa architettura finanziaria globale. Nello stesso tempo, la flessibilizzazione parossistica della forza-lavoro, che poteva funzionare (pressappoco) in fasi di crescita economica, ha fatto pesare in maniera drammatica su freelance, indipendenti e lavoratori in nero l’onere del rallentamento della produzione, fino alle prime avvisaglie di tumulti di piazza. Si tratta soltanto di alcuni esempi del fragile equilibrio mandato all’aria dal COVID-19.

Gli storici del futuro si chiederanno forse se il nostro modello di sviluppo sia entrato in crisi per il coronavirus oppure con il coronavirus: di sicuro, era piuttosto anziano e aveva patologie pregresse.

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