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Ho riscoperto Pasolini nel ricordo della cugina Graziella

Graziella Chiarcossi cugina di Pasolini mi racconta delle estati passate con lui a Roma nella casa di Ponte Mammolo e di quando “mi portava al cinema e a mangiare il cocomero a San Lorenzo”.
A cura di Ascanio Celestini
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“Ti posso dire delle cose qua e là poi tu fai quello che vuoi. Tieni conto che io sono venuta a Roma per la prima volta nel '52 che ero proprio bambina, avevo 9 anni. Ho visto la loro prima casa a Ponte Mammolo, d’estate. E devo dire che credo siano i primi ricordi che ho di Pierpaolo, che mi portava al cinema e a mangiare il cocomero a San Lorenzo”.

Al quarto piano di una palazzina in zona Trionfale ci abita Graziella Chiarcossi. Dal citofono al portone faccio qualche decina di metri in salita. Lei mi chiama dal terrazzino. Cancelletto, portone, ascensore e arrivo davanti alla porta dell’appartamento. Ci sediamo vicini. Le dico che non vorrei sentirla parlare di letteratura e tantomeno di questioni legali su indagini e processi. Vorrei che mi raccontasse qualcosa di suo cugino. Uno scrittore e regista e poeta importante, un intellettuale amato e odiato, che però pure lui ce l’ha avuta una vita familiare. Un rapporto che non esclude l’ideologia, ma si pone un passo prima come la lingua che impariamo parlando da piccoli e solo successivamente si struttura in forme sintattiche, in regole grammaticali. Graziella sorride mentre racconta e ogni tanto scoppia a ridere. Mi parla di uno zio “timido e pudico nei rapporti con le persone”, mi parla di Pierpaolo Pasolini. In quella Roma degli anni '50 Graziella ci passa dei periodi durante l’estate. Sta nella casa dove vive Pierpaolo e sua madre Susanna, ma anche il padre che si chiamava Carlo. Tra loro è la zia Susanna che ricorda di più, anche quando stava a Casarsa, il paese friulano dove è nata lei e tutta la sua famiglia. Si ricorda le passeggiate al cimitero con questa zia silenziosa come il figlio “perché io ero la figlioccia di Guido, quello morto partigiano, per cui c’è sempre stato un legame particolare con Susanna. E io di lei mi ricordo queste passeggiate per andare a trovare la tomba di Guido”, cioè quel fratello partigiano di Pierpaolo fucilato da altri partigiani. Morto, come scrisse poco dopo il fratello poeta, “in un modo che non mi regge il cuore di raccontare”, cioè “in una situazione complessa e apparentemente difficile da giudicare” che “non mi dà nessuna esitazione. Mi conferma soltanto nella convinzione che nulla è semplice, nulla avviene senza complicazioni e sofferenze”.

C’era stata una denuncia a Casarsa. Il giovane Pierpaolo s’era appartato con altri ragazzi, era stato subito uno scandalo seguito dall’espulsione dal PCI e lui se n’era andato come scrive in certi versi famosi. "Fuggii con mia madre e una valigia e un po' di gioie che risultarono false, / su un treno lento come un merci, / per la pianura friulana coperta da un leggero e duro strato di neve. / Andavamo verso Roma” e il padre restava al paese, anzi scrive che era abbandonato “accanto a una stufetta di poveri, / col suo vecchio pastrano militare”. A scuola queste parole me l’hanno sempre spiegate coma una fuga anche da lui, dal padre malato oltre che da una Casarsa più vecchia che arcaica. Ma forse non è così perché Graziella, sorridendo ancora, la storia me la racconta diversa. Dice che “era successa questa cosa della denuncia, ma se non era questa cosa, nel giro di sei mesi sarebbe venuto a Roma comunque. Lui poi nella lettera dice che poteva essere Firenze, Bologna un altra città dove poteva andare, capito?” Così il giovane Pasolini se ne viene a Roma con la madre Susanna e dopo un po’ arriva anche il padre. Perché lasciata la stufetta di Casarsa anche il vecchio soldato era arrivato a Roma e “si è ricostituita la famiglia a Ponte Mammolo. Cioè è con lui che c’è stato l’affitto di questa casa vicino a Rebibbia. Lui è venuto e loro si sono riuniti, capito? Hanno superato… evidentemente era una cosa normale questa cosa qui. Ha fatto lui il trasloco, tutto quanto, Pierpaolo, il padre e Susanna. Questa cosa è stata fatta insieme. Non è che lui li ha raggiunti. Insieme hanno messo su casa”.

In quella casa, in estate, ci va pure Graziella che si ricorda bene dello zio “che noi lo chiamavamo lo zio Pasolini. Rimproverava in maniera carina la zia perché lei mi metteva da parte le riviste, dei libri particolari e quando andavo lì voleva che io leggessi eccetera… capito? Questi sono i primi ricordi che ho avuto. La rimproverava, diceva le metti dei grilli in testa. Erano riviste dove scriveva anche Pierpaolo… figurati era militare, fascista, col figlio omosessuale, l’altro figlio morto partigiano, lui che era stato in Kenia prigioniero, che era tornato con la cirrosi… tutto… e ti dirò che invece tutto il periodo che sono andata lì a Ponte Mammolo e anche nelle altre case, via Fonteiana, via Carini… ho un ricordo di questo zio Pasolini molto… gli volevo bene. Era sempre disponibile, pronto ad accompagnarmi, a venirmi a prendere alla stazione. E credo che coincida molto con il periodo in cui lui gli faceva da segretario che si era abbonato all’eco della stampa. Ci son delle lettere in cui gli dice è arrivato l’assegno del premio. Evviva! E poi fai questo… fai quello. Secondo me era una persona buona. Tra l’altro lui nella sua famiglia, in tempi diversi, ci son stati ospiti sia mia mamma che l’altra sorella. E tutt’e due, sia Franca che mia mamma, sono state ospiti quando studiavano a casa loro. ”.

Così cominciano la storia di Graziella in casa del cugino grande che non era ancora un poeta conosciuto e contestato. Lei era piccolina, dice, e si ricorda della “panzanella. L’idea di questa cosa che mi sembrava come se fosse le madeleine di Proust, me la ricordo come una cosa meravigliosa. Io ero una specie di figlietta in quella casa, insomma. E alla sera io e Susanna passeggiavamo sotto le mura del carcere perché non è che c’era molto altro. E invece al pomeriggio c’era questa cosa di Pierpaolo che mi portava al centro di Roma. In fondo alla Tiburtina c’era un’osteria e da lì passava l’autobus che arrivava a san Lorenzo. Mi piaceva tanto che mi portava al cinema. E mi ricordo che una volta siamo entrati in un film… in un cinema, lui si è ricordato che quel film l’aveva già visto e siamo andati via: e questo m’era rimasto molto impresso. E poi mi ricordo di un’altra zia invece che è venuta a Roma molto presto e è andata a lavorare in Africa. Ha fatto sempre la governante. E che io, nei primi anni che venivo a Roma la ritrovavo che mi accompagnava in giro. Figuriamoci mi ha accompagnato… come si chiamava? Il Volturno quello dove facevano il Varietà. Poi voleva andare sempre al mercato di via Sannio perché le piaceva comprare i vestiti vecchi che ogni tanto regalava e che nessuno voleva. Questa zia ha fatto una vita un po’ pazza, era un po’ pazza… ignorante! Neanche lei ha voluto studiare. Zia Chiarina si chiamava, sì.Strani personaggi, devo dire. E c’era anche un’altra zia che era rimasta al paese, una famigerata… non so come dire, anche lei maestra, matta, sorella di Susanna, omosessuale, la quale andava in giro a difendere Pierpaolo per il paese quando c’erano i problemi soprattutto i primi anni. Loro andavano a farle vedere i giornali dove si parlava male di Pierpaolo e lei invece quando c’era una cosa bella andava in giro…”.

“Anche mia madre era maestra come Susanna. Mia nonna invece faceva la sarta, è l’unica che non ha studiato… c’era anche un’altra che non aveva studiato. Ma ad ogni modo è stata Susanna che dal punto di vista culturale mi ha dato di più in quel periodo, molto di più di quanto mi ha dato mia mamma, molto di più. Lei curiosamente aveva da una parte la nonna che avrebbe voluto che lei facesse la suora, come succede nei paesi, quelle cose là… per cui ha passato i primi anni ad andare sempre in chiesa. Poi ha avuto una fortuna straordinaria, secondo me, che è andata a fare la maestra a San Pietro Natisone e la direttrice di queste magistrali era ebrea per cui non c’era nessun obbligo dal punto di vista religioso e lei ha sempre ricordato questa preside con grande rispetto, una gran stima, e secondo me il tipo di scuola che lei ha frequentato… le è rimasta quella religiosità come quella che aveva Pierpaolo. Tante volte lui diceva sacralità, per cui appunto ha scritto l’Usignolo della chiesa cattolica”.“Nel ’62 avevo 19 anni sono venuta a Roma ad abitare stabilmente con loro per fare l’università. Poco dopo c’è stata questa esperienza bellissima del Vangelo. Pierpaolo aveva deciso di far fare a Susanna la Madonna vecchia e c’è stata questa partenza in aereo per la prima volta sia io che lei con Elsa Morante, che siamo andate a Bari. E lì siamo state tutto il periodo in cui Susanna doveva lavorare. Mi ha messo vicino a lei come una delle donne… però devo dirti la verità che io ho un ricordo più di quello che abbiamo fatto io e mia zia Susanna, lì nel meridione, andare al cinema da sole, le uniche donne, dentro il cinema erano tutti maschi. E le passeggiate ai Sassi in cui lei ha fatto amicizia con l’unica famiglia rimasta lì, credo fossero una o due, che c’era una ragazza che faceva la maestra e allora, lei era maestra, Susanna, le piaceva parlare… mi ricordo tutte cose un po’ collaterali, capito?”

“Quello che mi preoccupava tantissimo era di fare in maniera che lei si sentisse a suo agio perché era del ’91, lei, era già grandina. Io poi mi son ritrovata nelle fotografie questa… quella sensazione che ho io adesso di proteggerla me la ritrovo nell’atteggiamento che ho nelle scene che abbiamo fatto, di esser sempre voltata con la testa verso di lei che sentivo che per lei era una cosa talmente fuori. E poi c’è questa cosa che è stata detta molto che però, che è tremenda, ma nello stesso tempo… di Pierpaolo che le ha ricordato il dolore che lei aveva avuto per Guido, farle capire che era quello che lui voleva da lei, che dimostrasse quella sofferenza che aveva avuto”.“Poi per un po’ di anni ho lasciato l’università perché avevo avuto delle delusioni su certi esami eccetera, avevo fatto storia dell’arte, però non mi ero trovata coi professori eccetera eccetera. Allora ero rimasta a casa e dicevo che imparavo più stando nell’altra stanza a ascoltare i vari incontri che faceva Pierpaolo… imparavo di più stando a casa. A un certo momento lui ha voluto che mi laureassi ed è stata la prima volta che mi ha proprio presa di petto. Che esame ti è andato bene, come posso aiutarti? Io gli ho detto che filologia romanza era la materia che mi era piaciuta di più. Lui ha preso su il telefono e ha detto a Roncaglia ti mando mia nipote che ha dei problemi, se puoi aiutarla, eccetera. E poi lì è partito che… E dopo, più o meno nello stesso periodo in cui mi sono laureata, Pierpaolo ha cominciato a farsi aiutare per "Empirismo Eretico" mi ha detto tirami fuori tutti i giornali nei quali ho collaborato in tutti questi anni che ci lavoro sopra. È stata la prima esperienza al di là delle cose universitarie. La prima esperienza diretta. Ho cominciato a correggere le bozze. Tutti gli articoli di "Scritti Corsari" e "Lettere Luterane", lui diceva io se correggo una cosa che ho scritto guardo certe cose, no? E mi possono sfuggire i refusi, quelle cose lì. Si trattava di stare… da una parte di stare concentrata, dall’altra leggevi anche queste cose importanti. Io mi ricordo quel libro che poi è uscito postumo, ma lui l’aveva preparato, che era "Descrizioni di descrizioni". Vedere la letteratura come la vedeva lui ho imparato moltissimo, tante cose. E poi capitava qualche volta per esempio delle cose che lui ha pubblicato nel Caos, sul Tempo, che era all’estero. Allora attraverso quelli della produzione mi mandava la rubrica da correggere e da mandarla via. Son cose che mi hanno dato molto e hanno creato un rapporto che siccome era fatto appunto di piccoli gesti, di piccole cose così, questo era un rapporto concreto, anche amoroso, ma concreto. Ma allo stesso tempo una cosa che mi ricordo è che io cautelavo sempre Susanna, no? Anche se non si parlava di problemi di Pierpaolo eccetera, la cautelavo molto soprattutto gli ultimi anni perché stava già in una situazione di arteriosclerosi. E mi ricordo che un giorno ho detto a Pierpaolo devi stare più attento con i giornali. Perché lasciava delle cose lì, magari con delle cose un po’ tremende, allora dissi non lasciarglieli vedere perché poi lei sta male. Perché poi c’era stata l’esperienza che la prima volta in cui lui è tornato dal processo della Ricotta, è entrato dentro casa, dice son stato condannato. E lei si è sentita male, che lui è andato poi al telefono a chiamare il pubblico ministero a dirgli che con questa condanna aveva provocato il male di sua madre ed era stata la prima volta in cui aveva detto una cosa forte a Susanna, capito? Perché le altre volte le cose le arrivavano attraverso i giornali, cose così, però quel caso lì… probabilmente poi si è pentito, è stato imprudente davanti a una cosa così grossa. Allora io sono stata sempre attenta a cercare di… anche se lei gli ultimi anni continuava a censurare ancora di più le cose”.

Graziella mi guarda e gli viene da ridere perché le cose censurate da Susanna è l’omosessualità del figlio, argomento che non s’affrontava in casa, né a Casarsa, né a Roma. A Graziella gliel’ha detto per la prima volta Vincenzo Cerami che era stato studente di Pasolini che era appena arrivato a Roma. Susanna faceva la governante e lui insegnava a Ciampino per 27mila lire al mese. Cerami aveva continuato a frequentare la casa del suo professore poeta e portava a spasso Graziella per fargli vedere una Roma che conosceva ancora poco. Ma oltre a questa macchia che pesava tanto cinquanta anni fa e tanto pesa ancora oggi che in Parlamento si discute sulle unioni omosessuali definendole contro natura, ce n’erano tante altre nella vita di Pasolini. C’erano quei tanti anni di processi che oggi ci fanno sorridere per le tesi assurde sulle quali erano fondati, che però gravavano quotidianamente su una ricerca letteraria e antropologica che non cercava lo scandalo nel presente, ma, al contrario, si interrogava su dubbi più seri e arcaici. O c’erano più semplicemente le ingiurie che arrivavano da destra e sinistra. E la famiglia lontana, quella che viveva ancora in Friuli era rimasta in silenzio senza spendere una parola per quel compaesano famoso che elevava una delle più brutte cittadine friulane a patria emotiva e linguistica. Tranne la zia famigerata stavano tutti in silenzio. Eppure gli abitanti di Casarsa ce ne avevano tante di parole. La triglotta Casarsa la chiamava Pasolini perché “l’italiano era la lingua ufficiale, i piccoli borghesi parlavano veneto e i contadini: friulano”. E tra tutte quelle lingue non riuscivano a mettere in croce due parole per dire che gli stavano vicino almeno loro.

In questa solitudine Pierpaolo Pasolini non era veramente solo. C’erano gli amici scrittori, alcuni giovani che diventeranno artisti pure loro come Cerami o i fratelli Citti e tanti altri. E poi c’era questa famiglia fatta di “strani personaggi”. La famigerata zia omosessuale di Casarsa, la matta che torna dall’Africa e va a vedere il varietà al Volturno, la mamma Susanna che cambia la propria religiosità in sacralità grazie alla preside ebrea, e soprattutto il padre che gli faceva da segretario ed era contento se arrivavano due soldi d’un premio letterario. In fondo a tutti c’è Graziella che se lo ricorda quando andavano al cinema o a mangiare il cocomero. E a me fa venire in mente due pagine di "Empirismo eretico" quando scrive “Se attraverso il linguaggio cinematografico io voglio esprimere un facchino, prendo un facchino vero”. E di quale genere di facchino sta parlando? Come si deve comportare in scena? Lui dice che si tratta di un “facchino morto” perché la morte opera una sintesi, “cadono nel nulla miliardi di atti, espressioni, suoni, voci, parole e ne sopravvivono alcune decine o centinaia” e “la moglie o gli amici, nel ricordarle, piangono”. Dunque per Pasolini il cinema opera questa sintesi. Il facchino del film è un facchino in carne ed ossa, ma mettendogli a disposizione le frasi che hanno più rilevanza, le “frasi che restano” dopo.

Proprio a Graziella è dedicato Empirismo eretico, il primo scritto del cugino grande sul quale ha lavorato. E proprio da queste due pagine sono partito per farle l’intervista. Questo le ho chiesto, cioè di raccontarmelo da vivo, ma, com’è inevitabile, scegliendo quel che ha avuto ed ha ancora oggi un peso per lei. E infatti sorride tutto il tempo e ride ogni tanto perché se lo ricorda vivissimo, pure se in questi giorni tutti ci ostiniamo a ricordarlo per il giorno in cui mori. Lei no. Diventa seria e dice che “intorno alla notte della morte… di quello non vorrei parlare”. Ed è meglio così, meglio non fare confusione tra i morti e i vivi. I primi sono stati entrambe le cose, ma i viventi no, per loro la morte è una condizione che appartiene ad altri. E allora vale la pena confrontarli nel tempo che hanno in comune: quello della vita. E quelle parole, forse saranno “in qualche modo preservate dal disastro”.

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Mi chiamo Ascanio Celestini, figlio di Gaetano Celestini e Comin Piera. Mio padre rimette a posto i mobili, mobili vecchi o antichi è nato al Quadraro e da ragazzino l’hanno portato a lavorare sotto padrone in bottega a San Lorenzo. Mia madre è di Tor Pignattara, da giovane faceva la parrucchiera da uno che aveva tagliato i capelli al re d’Italia e a quel tempo ballava il liscio. Quando s’è sposata con mio padre ha smesso di ballare. Quando sono nato io ha smesso di fare la parrucchiera. Mio nonno paterno faceva il carrettiere a Trastevere. Con l’incidente è rimasto grande invalido del lavoro, è andato a lavorare al cinema Iris a Porta Pia. La mattina faceva le pulizie, pomeriggio e sera faceva la maschera, la notte faceva il guardiano. Sua moglie si chiamava Agnese, è nata a Bedero. Io mi ricordo che si costruiva le scarpe coi guanti vecchi. Mio nonno materno si chiamava Giovanni e faceva il boscaiolo con Primo Carnera. Mia nonna materna è nata ad Anguillara Sabazia e si chiamava Marianna. La sorella, Fenisia, levava le fatture e lei raccontava storie di streghe.
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