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Opinioni

Il fascismo è un problema: è ora di affrontarlo

L’unica risposta al fascismo, con il suo assistenzialismo senza emancipazione e la negazione di ogni conflitto, è una democrazia sociale compiuta e intransigente, che non lasci spazio alla violenza.
A cura di Roberta Covelli
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Il fascismo torna a essere un argomento di cronaca. Di fronte a notizie che vanno dagli eventi nostalgici fino alla violenza razzista, si pongono interrogativi su come dovrebbe essere raccontata l’azione fascista, su quale sia lo spazio che merita e, più in generale, su come si debba affrontare il tema dell’intolleranza in un contesto democratico.

Se il paradosso della tolleranza, elaborato da Karl Popper, appare suggestivo e logico (pur ponendo diverse questioni problematiche dal punto di vista liberale), l’approccio cui sembra aderire una parte influente della società italiana va in tutt’altro senso. Si assiste, infatti, a una sostanziale minimizzazione del fenomeno, con diversi atteggiamenti di giornalismo e politica.

Media e fascismo: sottovalutazione e legittimazione

Un primo atteggiamento è la negazione della natura fascista di un’azione qualora essa non sia penalmente rilevante, o, più in generale, quando non sia punibile con illeciti previsti contro apologia e revisionismo. È il caso, ad esempio, di coloro che, prima ancora della difesa ufficiale, si sono premurati di spiegare che la bandiera affissa a Firenze, in una camera della caserma Baldissera dei carabinieri, non poteva essere nazista, perché riferita a un periodo storico precedente all’ascesa di Hitler, concentrandosi sulle dissertazioni storiche invece che su un semplice dato di realtà: il vessillo del Secondo Reich tedesco non può giuridicamente considerarsi riconducibile all’esperienza hitleriana e, proprio per questo, viene utilizzato dai neonazisti (che certo non si sono mai distinti per Zivilcourage, la disobbedienza civile come aperta violazione della legge considerata ingiusta per la sua modifica nonviolenta).

A questo primo tipo di minimizzazione, si aggiunge la disponibilità al confronto con i fascisti, che li legittima come parte del processo dialettico democratico. Negli ultimi mesi, sono stati ospiti di Casapound giornalisti come David Parenzo, Enrico Mentana e Corrado Formigli, per discutere con Simone Di Stefano nella sede del movimento neofascista. Formigli, peraltro, non ha mancato di restituire la cortesia, invitando Simone Di Stefano a Piazza Pulita, giustificando la presenza del portavoce di Casapound con la funzione giornalistica che il talk show dovrebbe avere, cioè “mostrare la realtà e mettere i politici di fronte ad essa, pretendendo risposte”.

Il problema, però, è che un movimento fascista è un movimento pre-politico: non si tratta cioè di una fazione dell’agone democratico, bensì di una realtà a esso esterna. Trattare i fascisti come interlocutori accettabili equivale ad assegnare al fascismo una legittimazione democratica che esso, ontologicamente, non può avere.

Invitare un fascista in televisione, poi, presenta il non trascurabile rischio di veicolare anche messaggi che l’intervistatore, culturalmente distante dal fascista, non coglie. Non si tratta di semplice pubblicità per Forza Nuova o Casapound, quanto piuttosto della consapevolezza che, quando Di Stefano parla in televisione, intercetta l’attenzione di sensibilità politiche e sociali diverse: il linguaggio chiaro nell’opposizione, la sicumera nelle (vaghe) proposte, l’aria marziale, la spilletta appuntata alla giacca e il ricorso a locuzioni patriottiche e populiste da parte di Simone Di Stefano passano e condizionano positivamente una parte di pubblico, a prescindere dal lavoro di inchiesta e critica che la redazione del programma e gli altri ospiti in studio potranno fare.

A questi atteggiamenti, si aggiunge la generale sottovalutazione della violenza intrinseca del fascismo. Esempio lampante è stata l’irruzione da parte dei militanti del Veneto Fronte Skinhead a un’assemblea della Rete Como senza frontiere: i fascisti sono entrati nei locali in cui si svolgeva la riunione, si sono posizionati dietro i partecipanti e uno di loro ha letto un comunicato. Apparentemente, non c’è stata violenza nel loro agire, e si è così verificato un paradosso, per spiegare il quale è necessario spiegare il valore dei mezzi e dei fini nell’azione politica, scomodando anche Gandhi. I nonviolenti, infatti, pongono attenzione sui metodi di lotta, affermando che non si possono raggiungere obiettivi giusti con mezzi ingiusti: in un ottica nonviolenta, ad esempio, non si può volere la pace preparando la guerra, perché non si raggiunge il fine giusto (la pace) con il mezzo ingiusto (la guerra). L’equiparazione etica di mezzi e fini non è accettata da tutti, anzi, la realpolitik impone di raggiungere gli obiettivi, a prescindere dai metodi. Gli skinhead a Como sono invece arrivati al paradosso di servirsi di mezzi (apparentemente) non violenti per perseguire un fine violento: il fascismo è infatti intrinsecamente violento, e credere che non lo sia soltanto perché i fascisti non hanno picchiato nessuno durante la loro azione sarebbe un po’ come ritenere che una rapina non sia tale se chi pretende denaro con una pistola in pugno chiedesse i soldi “per favore”.

Peraltro, anche il metodo usato dai neofascisti è più violento di quanto non appaia: l’aura, l’atteggiamento, le parole del comunicato così come quelle improvvisate (“Nessun rispetto per voi”) creano un clima di intimidazione non molto diverso dallo squadrismo. Se il mafioso che entra in un negozio e chiede un contributo, senza minacce esplicite e senza percuotere le persone o danneggiare il locale, è comunque un estorsore che chiede il pizzo e che quindi commette violenza, i fascisti che impongono la loro presenza a un incontro antirazzista dovrebbero forse essere considerati pacifici?

La risposta istituzionale al fascismo dei simboli

Eppure, nonostante le minimizzazioni, il fascismo è ben identificabile, se non altro nelle sue forme nostalgiche. Ci sono i luoghi dedicati, come Predappio meta di pellegrinaggi, così come gli eventi commemorativi, con la memoria di vittime di fede fascista che diventa la scusa per riunire i nostalgici (è il caso dell’annuale parata in ricordo di Ramelli). C’è stata la spiaggia di Chioggia, ci sono i souvenir in giro per l’Italia. Ma ci sono stati anche i bangla tour, pestaggi di gruppo ai danni di immigrati, attività che si sono poi rivelate parte di quelli che apparivano come percorsi di indottrinamento. Ci sono state le bombe rudimentali davanti ai portoni di chiese le cui comunità si spendono per l'accoglienza di profughi e migranti a Fermo, là dove, pochi mesi più tardi, sarebbe morto Emmanuel Chidi Nnamdi: Amedeo Mancini, che aveva apostrofato il nigeriano e la giovane moglie come “scimmie africane”, è tornato nei giorni scorsi in carcere, dopo aver patteggiato una pena per omicidio preterintenzionale aggravato dall’odio razziale. Il richiedente asilo nigeriano non è l’unica vittima dell’odio razzista (e neofascista): Samb Modou e Diop Mor furono uccisi il 13 dicembre 2011 da Gianluca Casseri, vicino a Casapound; Muhammed Shrazad Khan fu ammazzato a calci e pugni da un diciassettenne, istigato dal padre, nel settembre 2014, nel quartiere di Tor Pignattara.

Una risposta istituzionale ai rigurgiti fascisti c’è stata. La Legge Fiano mira infatti a introdurre nel codice penale l’articolo 293-bis, che punisce la propaganda del regime fascista e nazifascista con la reclusione da sei mesi a due anni. L’istituzione del reato, nelle intenzioni di chi l’ha proposto, dovrebbe reprimere quei comportamenti individuali, come la vendita e diffusione di souvenir fascisti e il pubblico richiamo a simbologie e gestualità, non punibili attraverso la legge Scelba e la legge Mancino. Nell’introdurre il reato, peraltro, la legge pone anche una aggravante: la pena è infatti “aumentata di un terzo se il fatto è commesso attraverso strumenti telematici o informatici”. Si tratta cioè della previsione di una specifica aggravante web, che, come notava Fabio Chiusi, si concretizza dopo anni di proposte per la criminalizzazione di Internet, fino ad arrivare all’assurdo per cui, in rete, “secondo la norma, essere fascisti è di un terzo più grave”.

Ma basta davvero opporsi al fascismo dei simboli per essere antifascisti? Forse no, se ci si ricorda di quel vecchio pensiero di Pierpaolo Pasolini che ammoniva: “Non occorre essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole: occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società”. Ci si accorge, anzi, di come sia insufficiente un antifascismo simbolico, che rivela la sua inadeguatezza rispetto alla sostanza nostalgica che a esso sopravvive (magari usando semplicemente bandiere pre-hitleriane), specie se lascia supporre fini illiberali come la criminalizzazione del web, inserita come aggravante nell’ordinamento insieme a una norma a cui sembra non ci si possa opporre senza rischiare di essere assimilati ai fascisti.

Non significa che non serva anche l’antifascismo dichiarato: che Alessandro Di Battista non riesca a rispondere chiaramente a Diego Bianchi su una domanda chiara e netta come “Il Movimento cinque stelle è una forza antifascista?” è un fatto decisamente grave, ma non sarà la lotta burocratica al fascismo formale a risolvere un problema ben più radicato.

Ma che cos'è il fascismo?

Il fascismo non è stato infatti una parentesi illiberale durante un lineare e democratico corso della storia italiana, ma, per citare Piero Gobetti, esso rappresenta l’autobiografia della nazione. D’altronde, lo stesso Mussolini, nell’intervista rilasciata a Ivanoe Fossani nel marzo 1945, affermava:

Io non ho creato il fascismo, l’ho tratto dall’inconscio degli italiani. Se non fosse stato così, non mi avrebbero seguito per venti anni. […] Altri potrà forse dominare col ferro e col fuoco, non col consenso, come ho fatto io.

Dunque, così come non si può prescrivere una terapia senza una diagnosi, per elaborare un’efficace risposta al fascismo è necessario innanzitutto chiarire che cosa esso sia.

Tempo fa, riflettevo sulla necessità di declassare il fascismo da ideologia a metodo: ritenevo infatti che il mussolinismo mancasse di originali presupposti teorici e i fini ideali, dal momento che l’autarchia e il nazionalismo non erano esclusiva degli squadristi. Viceversa, intravedevo nell’uso sistematico e istituzionalizzato della violenza la caratteristica irrinunciabile (e qualificante) del fascismo: esso era quindi un metodo, opposto a quello democratico e, in quanto tale, impossibile da accettare nell’ordinamento. Si trattava senz’altro di una visione un po’ semplicistica o, perlomeno, incompleta: il fatto che non esista fascismo senza violenza non implica che esso sia solo un metodo. Resta invece chiaro che, non potendo esistere fascismo senza violenza, non può nemmeno esistere un fascismo democratico, ma, tuttalpiù, solo una sua versione istituzionale.

Appurato che cosa il fascismo non è, resta da chiedersi che cosa sia, guardando ai fatti compiuti durante il Ventennio e alle promesse dichiarate da chi ancora oggi vi si ispira.

L'ispirazione sociale: assistenzialismo senza partecipazione

Non deve stupire che Mussolini, prima di fondare i fasci di combattimento, militasse nel Partito socialista: parte essenziale del fascismo è l’ispirazione al benessere popolare, privo però dell’emancipazione che le democrazie sociali pongono invece come base per la vita politica. Durante il Ventennio non sono mancate quindi politiche sociali, anche se decisamente meno incisive di quanto non si affermi nei discorsi alla “Quando c’era Lui”. Esse arrivavano però dopo un periodo di assestamento autoritario in cui sindacalisti e lavoratori in protesta sperimentavano la violenza squadrista. Questa repressione, unita al successivo scioglimento per legge delle associazioni, non poteva che scoraggiare l’elaborazione di diritti e rivendicazioni collettive, trasformando le concessioni sul piano sociale in mezzi di consenso e, nello stesso tempo, di controllo della popolazione, fungendo da arma di ricatto contro il dissenso. La giustizia sociale, lungi da essere raggiunta sotto il fascismo, viene sostituita dall’assistenzialismo, che garantisce alla popolazione quel poco che basta a sedare la necessità alimentare di ribellione, capace di convertirsi in gratitudine verso il Duce che generosamente concede la sopravvivenza e che si eviterà di contestare, dal momento che è il suo arbitrio a decidere a chi spettano i diritti.

La negazione del conflitto

Ma non è solo la paura di vedersi negati i mezzi di sussistenza a fermare il dissenso, quanto una base filosofica che caratterizza il fascismo (e la sua opera di indottrinamento), ossia il funzionalismo: la società viene concepita come un unico corpo, che deve quindi tendere concordemente agli stessi obiettivi. Il conflitto è escluso a priori: basti pensare al sistema sindacale durante il Ventennio, con corporazioni che riuniscono, in un’unica associazione, lavoratori e datori di lavoro, eliminando così qualunque possibilità di dialettica e negoziazione.

Il funzionalismo strutturale e corporativista che caratterizza il fascismo porta a una sostanziale pacificazione e coesione sociale, a discapito della libertà degli individui e della loro emancipazione collettiva: si ha un obbligo di pax sociale, un’uniformità imposta, che si traduce nella punizione della devianza, con la repressione di tutti coloro che possono attentare all’ordine costituito, con le loro azioni o con la loro stessa esistenza, diversa dal modello di italianità fascista.

Solo chiarite queste caratteristiche è possibile provare a elaborare una risposta, limpida ed efficace, al fascismo di ieri e di oggi.

Come si risponde al fascismo?

E così, di fronte a italiani bisognosi che ricevono pacchi di pasta dai neofascisti o che frequentano gratis la palestra degli Spada a Ostia, finendo per aderire alle campagne di Forza Nuova o Casapound, ci si rende conto che limitarsi a incriminare il saluto romano non potrà arginare il fenomeno di odio in questione. Allo stesso modo fallimentare sarebbe rincorrere l’estrema destra, cedendo alla criminalizzazione di rom, stranieri e, più in generale, dei devianti rispetto al modello ritenuto normale, come però, in effetti, è apparsa più volte l’azione governativa nella gestione dell’ordine pubblico (si pensi alle cariche contro rifugiati eritrei di piazza Indipendenza a Roma, ai continui sgomberi ai danni del Baobab o, più in generale, alle misure autoritarie contenute nel decreto Minniti). Affrontare politicamente il bisogno, invece di criminalizzare i bisognosi, toglierebbe spazio all’assistenzialismo che i neofascisti utilizzano come mezzo di consenso.

Contro il fascismo, assicurare il benessere alla popolazione serve, ma non basta, anzi, rischia di rappresentare una semplice risposta alimentare ai bisogni, un assistenzialismo in cui cambia solo la mano di chi concede: è necessaria anche e soprattutto un’opera più profonda di educazione al pensiero critico, innanzitutto riconoscendo il valore democratico del conflitto. Un conflitto può essere la risposta all’oppressione sociale o il naturale evolversi del confronto tra diverse posizioni: imparare a osservare la realtà, riconoscerne i problemi e porre al centro dell’azione politica l’elaborazione di mezzi (nonviolenti) di risoluzione dei conflitti, senza negarli o imporre la loro pacificazione, è oggi la vera sfida della politica. In quest’ambito, più che altrove, è ineludibile una severa autocritica da parte di partiti che si dichiarano democratici o liberali, ma che appaiono nei fatti incapaci di concepire il dissenso, non solo rispetto ai loro avversari politici, ma perfino al loro interno. Le forzature (anche istituzionali) che riducono gli spazi dialettici, lo sberleffo dell’opinione diversa, l’applauso opportunista ma convinto a chi detiene il potere rappresentano, anche nei contesti apparentemente virtuosi, il terreno di coltura di un fascismo privo dei suoi simboli ma ugualmente violento e autoritario.

Per essere antifascisti, oggi, è necessario ritornare allora a quei dibattiti che animarono l’Assemblea Costituente, che già al tempo aveva trovato nel pluralismo delle idee e nel loro confronto dialettico la risposta a un fascismo uniformante, che con la pacificazione obbligatoria eliminava ogni possibilità di conflitto e di emancipazione individuale e collettiva.

Non si possono minimizzare i danni che l’estrema destra ha inflitto e infligge alla società, né si dovrebbero legittimare i fascisti trattandoli come normali interlocutori politici, ma non basta neppure prendersela con il fascismo simbolicamente palese.

Il fascismo può combattersi solo con il suo opposto, cioè la democrazia: una democrazia intransigente e genuina, impegnata nel concreto a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese”.

Una democrazia che non rimuove questi ostacoli e che non valorizza i suoi cittadini è una democrazia debole e vuota, che facilmente si riempie delle promesse di ordine e benessere di un fascismo per natura violento.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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