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Conflitto Israelo-Palestinese

Perché Israele sta per cadere nella trappola di Hamas e cosa deve fare per evitarlo

Nei prossimi giorni si prevede l’inizio della campagna via terra da parte di Israele nella Striscia di Gaza con l’obiettivo di neutralizzare Hamas, in risposta al terribile attacco terrorista avvenuto una settimana fa. Sebbene questa campagna militare miri a risolvere in via definitiva il problema di Hamas, esistono legittime preoccupazioni sulla sua efficacia a lungo termine.
A cura di Daniele Angrisani
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Nei prossimi giorni, si prevede l'inizio della campagna via terra da parte di Israele nella Striscia di Gaza. Questa operazione ha come obiettivo quello di neutralizzare la minaccia rappresentata da Hamas, in risposta al terribile attacco terrorista avvenuto una settimana fa, che ha causato oltre 1.300 vittime, in gran parte civili, massacrati senza pietà nelle proprie abitazioni e strade.

Attualmente, la situazione è in una fase preliminare all’invasione via terra: per questo motivo, Israele ha sollecitato più di un milione di cittadini, residenti nella zona nord della Striscia di Gaza (inclusa Gaza City), a evacuare verso Khan Younis, situata nella parte sud della Striscia.

Parallelamente, Israele ha avviato una significativa campagna di bombardamenti. Secondo le stesse dichiarazioni delle forze aeree israeliane, in soli 6 giorni sono state sganciate oltre 6.000 bombe su un'area di 365km2, in una delle zone con la maggiore densità abitativa del mondo.

A titolo comparativo, tra il 2016 e il 2017, la coalizione internazionale anti-ISIS ha sganciato in media 2.500 bombe al mese su un territorio molto più vasto, circa 46.000 km2, in Siria ed Iraq.

Sebbene questa campagna militare, nelle intenzioni del governo israeliano, miri a risolvere in via definitiva il problema di Hamas, esistono legittime preoccupazioni sulla sua efficacia a lungo termine. Alcuni ritengono che ciò possa invece innescare le più gravi tensioni regionali degli ultimi 50 anni. Nel prosieguo dell'articolo, analizzeremo più in dettaglio gli eventi in atto per offrire una visione chiara di ciò che sta accadendo.

La risposta internazionale all'azione israeliana a Gaza

In risposta all’orribile attacco terrorista di Hamas nel sud di Israele, l'esercito israeliano ha rapidamente arruolato 300.000 riservisti, imponendo come prima misura un blocco totale sulla Striscia di Gaza. In questo modo ha interrotto le forniture essenziali, comprese acqua, luce e gas, e bloccato l'arrivo degli aiuti umanitari.

Il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha messo in evidenza le gravissime condizioni degli ospedali di Gaza, sottoposti al blocco, affermando che potrebbero trasformarsi in obitori a causa della mancanza di elettricità.

I bombardamenti israeliani in corso, secondo fonti locali palestinesi, hanno inoltre già causato la morte di almeno 2.200 persone, tra cui 724 bambini e 458 donne. Uno degli episodi più criticati di questa campagna di bombardamenti è stato sicuramente il bombardamento di un convoglio di civili in fuga verso il sud della Striscia di Gaza, avvenuto dopo l’ultimatum israeliano a lasciare la zona nord, e che ha causato la morte di almeno 70 persone.

In questo contesto, sebbene i principali alleati occidentali di Israele, come gli Stati Uniti e diversi Paesi europei, abbiano immediatamente condannato gli attacchi di Hamas, esprimendo tutta la propria solidarietà per Israele e sottolineando più volte il diritto di Israele di difendersi da attacchi armati, sono già emersi i primi dubbi sulla validità della tattica israeliana.

Josep Borrell, responsabile della politica estera dell'UE, pur avendo condannato gli attacchi di Hamas, ha criticato la decisione israeliana di bloccare Gaza, definendola contraria al diritto internazionale. In un'intervista rilasciata a El Pais, ha dichiarato: "Non si può tagliare l'acqua e i servizi essenziali ad una popolazione".

Negli Stati Uniti l’Amministrazione Biden ha espresso solidarietà con Israele ma ha anche esortato privatamente Israele al rallentamento delle operazioni militari, per consentire un maggiore deflusso della popolazione civile dalle zone in cui è prevista l’operazione militare.

Durante un discorso a Philadelphia, tenuto venerdì sera, il presidente Joe Biden ha sottolineato le preoccupazioni relative alla crisi umanitaria a Gaza, affermando tra le altre cose: “Non possiamo perdere di vista il fatto che la maggioranza dei palestinesi non ha nulla a che fare con Hamas”.

Alle Nazioni Unite, invece, il Segretario Generale dell'ONU, Antonio Guterres, e l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, hanno espresso preoccupazione per le azioni israeliane, sottolineando le violazioni del diritto internazionale causate del blocco imposto alla Striscia di Gaza.

Inoltre, anche importanti organizzazioni internazionali per i diritti umani come Human Rights Watch hanno condannato le tattiche israeliane, evidenziando potenziali crimini di guerra come l'uso della fame e della sete come arma di guerra.

In un commento sintetico, ma molto diretto, Ian Bremmer, presidente dell’Eurasia Group, ha sottolineato il dilemma della situazione: “Distruggere Hamas renderà Israele più sicura, ma distruggere le vite di 2 milioni di palestinesi a Gaza renderà Israele meno sicura. Proteggere le vite dei civili è una materia di difesa basilare dei diritti umani ed è nello stesso interesse dei civili israeliani”.

La reazione del mondo arabo e della Turchia

La reazione dei principali Paesi arabi e della Turchia alla campagna israeliana in corso contro Gaza è stata, seppure con diverse sfumature che riflettono sia le alleanze geopolitiche che le tensioni regionali, una condanna unanime di Israele.

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha condannato duramente il blocco e i bombardamenti israeliani della Striscia di Gaza assediata, definendoli come un "massacro”, ed ha aggiunto che “tagliare l’elettricità, l’acqua, il carburante ed il cibo a 2 milioni di persone ammassate in 365 km2 è una violazione dei più elementari diritti umani” da parte israeliana.

Il Segretario Generale della Lega Araba, l’egiziano Ahmed Aboul Gheit, ha chiesto “lo stop immediato alle operazioni militari a Gaza" e della "spirale di confronto armato tra le due parti", sottolineando che l'attuazione continua da parte di Israele di politiche violente ed estremiste rappresenta una "bomba a orologeria" per la stabilità regionale​.

L’Egitto, Paese che confina direttamente con la Striscia di Gaza e con Israele, ha esortato sia Israele che i palestinesi ad esercitare moderazione e ha avvertito delle "gravi conseguenze" dell'escalation.

Allo stesso tempo il governo egiziano ha rigettato in maniera decisa le proposte israeliane di ricollocare almeno temporaneamente una parte della popolazione civile palestinese di Gaza nel Sinai, arrivando addirittura a chiudere con un blocco di cemento il valico di Rafah al confine con la Striscia di Gaza.

Un altro Paese che confina con Israele, la Giordania, è stato altrettanto duro, esprimendo preoccupazione per l'escalation di violenza in corso a Gaza, ed evidenziando le ripercussioni gravi che tale situazione potrebbe anche in Cisgiordania. Il Re Abdullah II della Giordania ha sottolineato come l'escalation della violenza rappresenti una minaccia per la sicurezza della intera regione.

Anche altri Paesi arabi come l’Algeria, il Marocco, il Sudan, l’Oman, lo Yemen ed il Qatar hanno espresso un generale sostegno alla causa palestinese, attribuendo l'escalation della violenza all'occupazione israeliana dei territori occupati palestinesi. Solo gli Emirati Arabi Uniti, che hanno normalizzato le relazioni con Israele nel 2020, hanno definito la decisione di Hamas di lanciare un assalto in Israele come una "seria e grave escalation", pur criticando anche loro la risposta israeliana.

L’Arabia Saudita, da parte sua, ha invece fatto sapere agli Stati Uniti di aver fermato qualsiasi discussione sulla normalizzazione delle relazioni diplomatiche con Israele, che erano in pieno svolgimento prima del massacro commesso da Hamas la settimana scorsa.

Ciò si è venuto a sapere proprio mentre il Segretario di Stato americano, Antony Blinken, si trovava in visita a Riyadh dopo essere stato prima in Israele e poi in altri Paesi arabi per un tour diplomatico in Medio Oriente nel tentativo di bloccare sul nascere qualsiasi escalation di violenza.

Il governo di Riyadh ha espresso, inoltre, crescente inquietudine per la sorte dei palestinesi nella Striscia di Gaza controllata da Hamas, ed ha duramente denunciato lo sfollamento dei palestinesi a Gaza e gli attacchi contro i "civili indifesi”, in un duro comunicato reso noto venerdì.

L'Arabia Saudita ha quindi anche convocato per mercoledì a Gedda una riunione urgente dei ministri degli Esteri dell'Organizzazione della Cooperazione Islamica (OCI), un blocco di 57 paesi musulmani. In un comunicato, l'OCI afferma che la riunione "affronterà l'escalation della situazione militare a Gaza e nei suoi dintorni, nonché il deterioramento delle condizioni che mettono in pericolo la vita dei civili e la sicurezza e la stabilità generale della regione".

Tutte queste reazioni evidenziano la complessità delle dinamiche regionali che circondano il conflitto israelo-palestinese ed evidenziano i rischi connessi in una situazione altamente volatile come quella in cui stiamo vivendo.

La Cisgiordania come una pentola a pressione pronta ad esplodere

La recente escalation di violenza e tensioni tra Israele e Gaza è stata accompagnata da sviluppi preoccupanti anche in Cisgiordania. Negli ultimi giorni, vi è stata una serie di episodi di violenza, tra cui un caso in cui un colono israeliano è stato ripreso da un video mentre sparava ed uccideva un manifestante palestinese a poca distanza.

Venerdì, Khaled Mashal, uno dei leader storici di Hamas, ha chiamato a una “giornata globale di rabbia" in sostegno dei palestinesi, esortando governi e popoli di tutto il Medio Oriente a protestare.

A Gerusalemme, una città spesso teatro di violenze, era previsto un afflusso di fedeli per la preghiera più importante della settimana presso la moschea di al-Aqsa. Tuttavia, l'affluenza è stata bassa a causa delle restrizioni imposte da Israele e delle minacce da parte di un gruppo di estrema destra ebraico.

Ciò non ha comunque impedito che vi fossero violenti scontri tra i manifestanti palestinesi e le forze di sicurezza israeliane in diverse aree della Cisgiordania occupata e di Gerusalemme Est. Nel corso della sola giornata di venerdì, 16 palestinesi sono stati uccisi a seguito degli scontri.  In totale, 46 palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania in circa 6 giorni, un numero superiore al totale mensile più alto registrato dall'ONU dal 2005 in poi.

In risposta alle azioni militari israeliane contro Gaza, si è anche tenuto uno sciopero generale in Cisgiordania, che ha visto una significativa partecipazione. Al momento, nonostante tutto, la situazione in Cisgiordania resta ancora relativamente sotto controllo, ma è sempre più evidente che le tensioni siano in aumento: non è per nulla da escludere, quindi, che una escalation dei combattimenti a Gaza possa finire per aumentare le violenze anche da queste parti.

Questo avviene in un contesto nel quale in molti ritengono che Hamas stia guadagnando sempre maggiore popolarità anche in Cisgiordania anche a causa delle percepite inerzie e accuse di corruzione associate al governo dell’Autorità Nazionale Palestinese. Si tratta, insomma, di una situazione tesa e volubile alla quale la comunità internazionale ed il mondo arabo dovrebbero prestare particolare attenzione, per scongiurare ulteriori complicazioni.

Hezbollah, Libano ed Iran: le incognite di una possibile escalation

La complessa tessitura di ruoli del Libano, Hezbollah e Iran nella presente crisi a Gaza solleva ulteriori interrogativi. L'atteggiamento di Hezbollah, la milizia sciita libanese guidata da Hassan Nasrallah, è particolarmente sotto i riflettori.

Dall’inizio della crisi, Hezbollah ha sparato diversi razzi dal Libano verso Israele. Queste mosse suggeriscono la possibile apertura di un ulteriore fronte bellico, che costringerebbe Israele a una potenziale guerra su due fronti, anche se finora l'azione di Hezbollah è stata ancora relativamente moderata.

Tanto Hezbollah quanto l'Iran hanno, nel frattempo, inviato chiari segnali agli USA: evitate di intervenire a favore di Israele, altrimenti le forze americane nella regione potrebbero essere prese di mira direttamente.

Dopo un incontro in Libano con Nasrallah, il Ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amirabdollahian, ha evidenziato come l'intensificazione del conflitto possa essere imminente se Hezbollah decidesse di entrare in gioco per rispondere alle azioni militari in corso a Gaza, portando a possibili conseguenze gravi per Israele.

Ha quindi esortato a interrompere gli attacchi su Gaza per scongiurare un'escalation a livello regionale. Amirabdollahian ha altresì ribadito che Hezbollah sta valutando differenti scenari, preparandosi di conseguenza.

In risposta a ciò, lo sceicco Naim Qassem, vice di Nasrallah, ha dichiarato: "Hezbollah monitora attentamente le azioni del nemico. Siamo pronti e agiremo quando sarà necessario."

Molti esperti, però, ritengono che nonostante la preparazione e l'allerta di Hezbollah, la popolazione libanese, provata da anni di guerra e una profonda crisi economica, potrebbe rappresentare un deterrente per una guerra su larga scala anche a nord di Israele.

Parallelamente, circolano voci nei media internazionali su un possibile coinvolgimento diretto dell'Iran con Hamas negli attacchi a Israele di settimana scorsa. Sebbene esista una chiara storia di sostegno dell'Iran a Hamas, è comunque fondamentale usare cautela prima di stabilire legami diretti vista la mancanza al momento di evidenze tangibili.

Una nota di particolare interesse riguarda un versamento di sei miliardi di dollari che gli USA avrebbero dovuto rilasciare all'Iran (mediante il Qatar) in cambio della liberazione di prigionieri americani, a patto che venisse utilizzato per aiuti umanitari.

Questi fondi, originariamente destinati dalla Corea del Sud all'Iran per acquisti petroliferi, sono ora congelati in attesa di chiarimenti sul tipo di sostegno fornito dall'Iran a Hamas prima dell'attacco terroristico della scorsa settimana.

Tuttavia, a prescindere dal ruolo diretto o meno e sempre più chiaro che l'Iran abbia guadagnando il massimo dal punto di vista geopolitico dalla nuova situazione creatasi, in special modo a seguito della pausa nell'accordo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita.

In questo delicato contesto, l'instabilità lungo il confine tra Israele e Libano persiste. Incidenti recenti, come il tentativo di infiltrazione presso Margaliot e la sconvolgente morte di un giornalista della Reuters in un raid israeliano, sottolineano la necessità impellente di prevenire un'escalation su scala più ampia.

I rischi e le implicazioni di un'offensiva terrestre a Gaza

Nonostante tutte queste preoccupazioni, la realtà delle cose è che la possibilità di un'offensiva di terra da parte di Israele a Gaza diventa sempre più concreta con il passare delle ore. I conflitti passati tra Israele e Hamas ci mostrano già un modello di come potrebbero svolgersi le operazioni militari: incursioni su larga scala precedute da intensi bombardamenti mirati alle postazioni strategiche di Hamas.

La densità urbana di Gaza, tuttavia, complicherà notevolmente le attività militari. Hamas, nel corso degli anni, ha perfezionato la sua tattica di resistenza in questo ambiente, rendendo le avanzate israeliane spesso prevedibili e vulnerabili a imboscate. La vasta rete di tunnel di Hamas, connessa da sistemi di comunicazione avanzati, è un ulteriore fattore di rischio, offrendo opportunità di attacchi sorpresa anche alle spalle delle forze avversarie.

Questo combattimento urbano intensivo porta con sé il rischio di significative perdite, come la storia recente ha già ampiamente dimostrato. A tutto ciò si aggiunge un'implicazione umanitaria. Un'offensiva potrebbe esacerbare la già catastrofica situazione a Gaza, con possibili centinaia di migliaia di ulteriori sfollati e nuovi danni alle infrastrutture.

La presenza degli ostaggi, tra cui molti stranieri, mette ulteriore pressione sulla situazione, attirando l'attenzione della comunità internazionale, la quale potrebbe, davanti alla crescente crisi umanitaria, spingere per un ritiro israeliano, specialmente se l'offensiva si dovesse protrarre nel tempo con costi umani spaventosi.

Ma la questione di base rimane: che forma avrebbe una "vittoria" da parte israeliana? È realistico pensare di eliminare completamente Hamas? E quale sarebbe la prospettiva futura per Gaza?

Le parole di Moshe Ya’alon, ex Ministro della Difesa israeliano, suonano come un campanello d'allarme: "Non possiamo sperare di eliminare l'ideologia di Hamas con una mera campagna militare", ha dichiarato. Questo sentimento riflette un'opinione crescente in Israele, dove la fiducia nel governo Netanyahu vacilla. Eventi come la cacciata da un ospedale della Ministra dell’Ambiente, Idit Silman, ne sono testimonianza.

Le proteste da parte dei famigliari degli ostaggi che chiedono le dimissioni di Benjamin Netanyahu fuori dal Ministero della Difesa a Tel Aviv amplificano ulteriormente questa percezione. Se l’offensiva terrestre a Gaza non dovesse portare risultati concreti in breve tempo, il futuro politico stesso del Primo Ministro Netanyahu potrebbe rimanere appeso ad un filo.

Come può fare Israele ad evitare di finire in trappola?

L'attuale scenario solleva un interrogativo chiave: Hamas sta cercando di attirare Israele in una trappola? Secondo l'analisi di esperti come Thomas Friedman del New York Times, è proprio così e ci sono due variabili chiave da tenere in considerazione:

Trappola Militare: La scala degli orrori dell’attacco di Hamas e tale da costringere Israele ad un'offensiva terrestre su larga a Gaza, che potrebbe facilmente degenerare, causando un massacro di civili e danneggiando seriamente l'immagine di Israele sulla scena mondiale, che finora è stata oggetto di una ondata di simpatia mondiale per via delle terribili immagini dell’attacco terrorista di Hamas.

Trappola Diplomatica: Oltre alle implicazioni militari, una reazione sproporzionata da parte israeliana potrebbe alienare in maniera duratura gli Stati arabi, compromettendo così le recenti iniziative di pace e normalizzazione — ed abbiamo già visto qualche segnale in questo senso.

La chiave per evitare di finire in queste trappole è riconoscerne la natura ed agire di conseguenza. Israele dovrebbe quindi: Riconoscere l'intento di Hamas di interrompere il processo di normalizzazione e cercare di isolare Israele, agendo attivamente per impedirlo. Adottare per questo motivo una strategia politica e non solo militare.

A tal proposito, pratiche come il blocco completo e la limitazione delle risorse essenziali non solo sono controproducenti, ma rischiano anche di galvanizzare ulteriormente il sostegno a Hamas nel mondo arabo e tra i palestinesi, e dovrebbero perciò essere immediatamente abbandonate.

Assumersi la responsabilità, in qualità di forza occupante, della sicurezza dei civili a Gaza, evitando al massimo qualsiasi danno collaterale. Negoziare per la liberazione degli ostaggi attraverso intermediari arabi. Mantenere e rafforzare le relazioni diplomatiche con gli Stati arabi, sottolineando l'importanza della pace e della stabilità regionale prima di ogni altra cosa. Rafforzare le proprie capacità di intelligence per proteggere i cittadini israeliani da futuri attacchi di questo tipo.

Allo stesso tempo, oltre alle azioni di Israele, anche la comunità internazionale ha un ruolo cruciale. Questa infatti può:

Fare pressione su Paesi come il Qatar per limitare il sostegno ed isolare Hamas. Assicurarsi che le operazioni militari abbiano un termine definito e siano seguite da iniziative di pace. Assicurare il rientro della popolazione palestinese di Gaza nelle proprie case alla fine dell’operazione militare, se possibile anche mediante lo stanziamento di una forza internazionale di pace su mandato delle Nazioni Unite. Promuovere più a medio termine la riapertura del processo di pace con i rappresentanti internazionalmente riconosciuti del popolo palestinese (vale a dire l’Autorità Nazionale Palestinese e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina) e con il resto del mondo arabo.

L’obiettivo politico finale di questo processo deve essere necessariamente quello di dare uno Stato internazionalmente riconosciuto ai palestinesi e per questo motivo garantire nuove e concrete opportunità per il futuro. Solo in questo modo si può dare ai palestinesi una vera alternativa rispetto all’agenda di morte e sofferenza di Hamas, o alla continuazione senza fine dell’occupazione israeliana, ed allo stesso tempo permettere ai civili israeliani di ottenere la sicurezza e la pace che meritano di avere.

Sebbene la situazione attuale sia difficile e intricata, con la giusta volontà politica, ovvero riconoscendo la natura delle potenziali trappole ed agendo con la giusta dose di saggezza e prudenza, sia Israele che la comunità internazionale potrebbero essere in grado trovare una via d’uscita duratura al conflitto e trasformare uno dei momenti più bui della storia recente nell’inizio di una soluzione definitiva al problema palestinese.

Da questo punto di vista, la speranza è l’ultima a morire. Lasciatemi sognare che possa ancora esistere un mondo migliore rispetto all’orrore senza fine che stiamo vedendo con i nostri occhi in questi giorni.

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Daniele Angrisani, 43 anni. Appassionato da sempre di politica internazionale, soprattutto Stati Uniti e Russia. 
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