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In Myanmar è in corso il genocidio dei rohingya, non possiamo far finta di nulla

Chi pensava che la liberazione e l’elezione di Aung San Suu Kyi potesse cambiare le cose oggi deve riconoscere di essersi sbagliato: in Myanmar è in corso un genocidio.
A cura di Augusto Rubei
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Quasi 1,2 milioni di persone rohingya hanno bisogno di aiuto. Di queste, 720.000 sono bambini. Hanno lasciato il Myanmar per fuggire in Bangladesh, in seguito all'ondata di violenze interreligiose. In passato abbiamo visto vittime picchiate, trascinate in strada, cosparse di petrolio e bruciate vive da banditi che scorazzavano brandendo coltelli, machete e walkie-talkie di fronte l'inerzia delle forze dell'ordine locali. Aggressioni sono state rivolte anche ai giornalisti giunti sul posto, ai quali e' stato più volte intimato di consegnare le memorie delle fotocamere con le quali avevano filmato i resti di alcuni cadaveri carbonizzati rimasti ai bordi dei marciapiedi.

La colpa dei perseguitati era ed è solo una, da tempo: essere musulmani in un Paese a maggioranza buddista. Nello Stato del Rakhine e in altri distretti del Paese la violenza di questi monaci sciovinisti è ormai irrefrenabile. Per questo ieri mattina, a Ginevra, l'Ue ha ospitato una conferenza dei donatori, insieme al Kuwait e in partnership con l'Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha), l'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). L'obiettivo è dare una risposta, e in tempi rapidi. Perché di fronte, quella che non riusciamo a vedere con i nostri occhi ma che si sta verificando è una vera e propria pulizia etnica. Temevamo che accadesse e non possiamo più voltarci dall'altra parte: in Myanmar è in corso un genocidio.

La Convenzione firmata a New York il 9 dicembre 1948 individua il genocidio in tre elementi. Primo: l'uccisione di membri di un gruppo, l'adozione di misure miranti ad impedire nascite all'interno del gruppo, etc.; secondo: il compimento di tali atti contro un gruppo "nazionale, etnico, razziale o religioso"; terzo: la presenza di un dolo specifico e cioè "l'intenzione di distruggere in tutto o in parte" un gruppo appartenente ad una di queste quattro categorie protette. E' quello che in Myanmar sta accadendo. Non c'è molta differenza dal Ruanda: allora le vittime furono prevalentemente di etnia Tutsi, corrispondenti a circa il 20% della popolazione, anche se le violenze finirono per coinvolgere gli Hutu moderati.

Durante l'Olocausto i nazisti usavano il termine "untermensch" (sub-umano) per descrivere i "popoli inferiori", specialmente gli ebrei, gli zingari, i popoli slavi come polacchi, i russi e ogni altra persona che non fosse di "razza ariana". I monaci buddisti in Myanmar parlano dei rohingya come degli esseri reincarnati dai serpenti e dagli insetti, tanto che il loro assassinio non costituirebbe un crimine contro l'umanità, bensì – dicono – una forma di disinfestazione dai parassiti. Così come per i Protocolli dei Savi di Sion (un falso documentale creato con l'intento di diffondere il disprezzo contro gli ebrei), si suppone che i rohingya siano autori di un complotto islamista per conquistare il mondo e instaurare un califfato globale.

Ogni genocidio moderno ha seguito questo modello e chi pensava che la liberazione e l'elezione di Aung San Suu Kyi potesse cambiare le cose oggi deve riconoscere di essersi sbagliato. Il suo silenzio – salvo rarissime circostanze – è imbarazzante, complice e pericoloso.

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