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Cosa succede tra Iran e Arabia Saudita e perché c’è chi teme una guerra

Sventola la bandiera rossa sulla moschea di Jamkaran, nella città santa iraniana di Qom. È la “bandiera della vendetta”, scrivono quasi tutti, e annuncia un’imminente spedizione militare da parte delle forze armate dell’Iran. Ma il problema di queste ore è: di chi, oggi, dovrebbero vendicarsi gli iraniani? E per cosa?
A cura di Fulvio Scaglione
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Sventola la bandiera rossa sulla moschea di Jamkaran, nella città santa iraniana di Qom dove tra l’altro è sepolto l’ayatollah Khomeini. È la “bandiera della vendetta”, scrivono quasi tutti, e annuncia un’imminente spedizione militare da parte delle forze armate dell’Iran. Infatti fu esposta dopo la morte del generale Qasem Suleimani.

Un drone americano lo uccise il 3 gennaio del 2020, il giorno dopo gli iraniani lanciarono 35 missili contro le basi Usa nel Kurdistan iracheno.

Ma il problema di queste ore è questo: di chi, oggi, dovrebbero vendicarsi gli iraniani? E per cosa? In quale modo l’Iran è stato così colpito da dover annunciare al mondo l’intenzione di replicare?

La cosa è indubbiamente curiosa. Il sottoscritto è appena tornato da Baghdad dove la bandiera rossa sventolava su moltissimi tetti e balconi. E quella è la capitale dell’Iraq. Dunque? La spiegazione è semplice.

Per i musulmani sciiti, la bandiera rossa non simboleggia il desiderio di vendetta ma il “sangue ingiustamente versato”. A cominciare, però, da quello di Hussein, nipote di Maometto, figlio di Alì (che del Profeta aveva sposato la figlia Fatima), ucciso con tutti i seguaci e i familiari nella battaglia di Kerbala (città che ora si trova in Iraq) nell’anno 680, evento che sancì la definitiva frattura del mondo islamico tra sunniti e sciiti, cioè i seguaci di Alì, che in Iran sono oltre il 90% della popolazione.

La bandiera rossa, peraltro, nel mondo sciita viene regolarmente esposta durante il Muharram, il mese che nel primo giorno segna il capodanno islamico e nel decimo la festa religiosa di Ashura, caratterizzata da due giorni di digiuno e, appunto, dalla commemorazione di Hussein.

Infine, per restare ai fatti di queste ore, la moschea di Jamkaran, a Qom, era anche quella dove il generale Suleimani soleva recarsi a pregare.

Nessuna vendetta in arrivo, quindi? Solo un falso allarme? Non proprio. Suleimani fu ucciso il 3 gennaio (2020), il mese islamico di Muharram quest’anno corrispondeva al nostro agosto.

Non v’è dunque alcuna corrispondenza temporale tra i riferimenti della tradizione sciita e la bandiera issata nelle scorse ore a Qom.

Se l’Iran ritiene di doversi vendicare di qualcosa, dobbiamo allora fare riferimento alle parole di Hossein Salami, comandante delle Guardie Rivoluzionarie, che nel pieno delle proteste seguite alla morte di Mahsa Amini, la ragazza uccisa dalla Polizia Morale che l’aveva fermata perché “portava male” il velo, disse quanto segue: “Le proteste sono frutto dei complotti di Usa, Gran Bretagna, regime sionista e regime marcio dell’Arabia Saudita”.

Niente di nuovo, capita spesso che i Paesi più chiusi e autoritari attribuiscano alle manovre di altri Paesi i loro problemi. E l’Iran non è nuovo a manifestazioni che ogni due anni circa portano nelle strade lo scontento di parte della popolazione.

Proteste dopo la morte di Mahsa Amini
Proteste dopo la morte di Mahsa Amini

Bisogna però tenere presenti due fattori. Il primo è che le ultime proteste, stroncate con quasi 300 morti e 13 mila arresti, sono state davvero trasversali: all’inizio animate soprattutto dalle donne, poi anche dagli uomini, dagli studenti, dagli operai, dagli intellettuali. Sostenute in modo pubblico dai calciatori e dagli atleti. Con attacchi diretti alla polizia e persino ai religiosi che passavano per strada.

Una cosa come non si era mai vista prima e che, al di là del tragico caso di Mahsa Amini, affonda le radici anche nella situazione economica del Paese, colpito dalle sanzioni internazionali ma anche dall’incapacità di riformare un sistema che sacrifica l’efficienza e la produttività alle esigenze di consenso dei vertici religiosi.

All’inizio dell’estate l’inflazione ha raggiunto il 55%, la scarsità d’acqua è cronica e l’incapacità di trovare un accordo con gli Usa sul nucleare condanna l’Iran alla messa al bando dalla comunità internazionale, con le ovvie e pesanti conseguenze sul tenore di vita dei cittadini.

Il secondo fattore è che a dispetto delle chiusure e dei controlli, l’Iran è davvero un Paese infiltrato. È ormai lunga la lista degli scienziati, degli ingegneri e dei militari morti negli ultimi mesi in modo più che sospetto: avvelenamenti, strani incidenti, quando non vere esecuzioni a mano armata.

Tutti, in un modo o nell’altro, impegnati nel settore nucleare. Non c’è da stupirsi, quindi, se le autorità iraniane vedono una mano ostile (in primo luogo quella di Israele) in certi eventi.

Nelle parole del citato Hossein Salami, però, ciò che più conta è il riferimento a quello che lui chiama “il regime marcio dell’Arabia Saudita”.

Influisce ovviamente in tanto disprezzo la divisione religiosa: l’Arabia Saudita è un Paese musulmano sunnita che, per di più, costituisce i luoghi più santi per tutti i musulmani, le città di Mecca e Medina. Ma assai più conta la politica.

L’Iran è il Paese leader del mondo sciita, l’Arabia Saudita di quello sunnita. Nei rispettivi ruoli, si battono per la supremazia in Medio Oriente e non solo. Teheran e Ryad sono protagoniste di una guerra totale che va ben oltre i confini dei due Paesi.

Viene combattuta in Libano, nello Yemen, in Siria, dove negli ultimi decenni si sono combattute guerre civili atroci. E lascia cicatrici importanti in parti dell’Asia Centrale e Meridionale, dei Balcani, del Caucaso, dell’Africa del Nord.

Entrambi i Paesi spendono somme enormi per promuovere la propria influenza, finanziando moschee e università ma anche armando gruppi terroristici o formazioni militari: l’Iran lo fa per l’Hezbollah libanese e gli Houthi yemeniti, per esempio, l’Arabia Saudita ha versato molti quattrini ai guerriglieri sunniti che hanno fatto strage in Siria.

Una rivalità profonda, inestinguibile, che ha per posta anche il controllo dello Stretto di Hormuz, un braccio di mare di 55 chilometri da cui ogni giorno passano 21 milioni di barili di petrolio, oltre il 20% dell’intero consumo mondiale. Il che comporta, ovviamente, ulteriori complicazioni.

L’Arabia Saudita ha come tradizionale alleato gli Stati Uniti, e come alleato più recente (e proprio in funzione anti-iraniana) anche Israele. L’Iran, a sua volta, può contare sull’appoggio della Russia (che attraverso l’Iran può superare parte dei blocchi imposti dalle sanzioni occidentali) e della Cina, che ha bisogno di Teheran per importare gas e petrolio e per strutturare una delle tappe fondamentali della cosiddetta Nuova Via della Seta, che dovrebbe garantire a Pechino sempre nuovi sbocchi sui mercati dell’Ovest.

Sono alleanze “pesanti”, che hanno conseguenze. Nelle scorse settimane, per esempio, l’Iran ha svolto massicce esercitazioni militari al confine con l’Azerbaigian, Paese che orbita intorno alla Turchia di Recep Tayyep Erdogan, è armato da Israele e ha ottime relazioni con gli Usa.

L’Azerbaigian musulmano è stato di recente in guerra con l’Armenia cristiana e legata a Mosca. E l’Iran, ovviamente, si è schierato con l’Armenia. E così via, fino ad arrivare al fronte oggi più caldo: l’Ucraina.

È stato l’Iran, infatti, a fornire i droni di cui la Russia mancava e con cui è riuscita a frenare l’avanzata nemica e a bombardare le infrastrutture energetiche dell’Ucraina. Sembra che Teheran abbia inviato in Russia anche un folto gruppo di specialisti per addestrare i militari russi all’uso dei droni e che stia per vendere a Mosca anche consistenti partite di missili terra-terra.

Cosa che non è piaciuta agli ucraini, ha fatto arrabbiare i loro alleati americani, che con l’Iran hanno il dente avvelenato da tempo, e ha inquietato sia l’Arabia Saudita (se quei droni finissero alla resistenza yemenita, le raffinerie saudite diventerebbero facili bersagli) sia Israele, facilmente raggiungibile dagli ordigni.

Come si vede, c’è una lunga serie di Paesi che avrebbe interesse a creare tensioni all’interno dell’Iran. E nello stesso tempo, l’Iran potrebbe avere interesse ad alzare la tensione internazionale per convincere Washington ad avere un atteggiamento più morbido nelle trattative sul nucleare, da cui dipendono le sorti economiche, e quindi anche politiche e sociali, del Paese.

È la globalizzazione dei rancori. E funziona proprio come quell’altra.

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