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Opinioni

Cala il potere d’acquisto delle famiglie e gli investimenti delle imprese

Cala il potere d’acquisto delle famiglia italiane, nonostante una leggera crescita del reddito disponibile. Tra inflazione, tasse e incertezze i consumi si riducono e le aziende tagliano gli investimenti. Senza riforme neppure la Bce di Mario Draghi, impegnata a cercare di far arrivare nuovo credito alle aziende, potrà fare molto per la ripresa…
A cura di Luca Spoldi
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Nel terzo trimestre del 2013 il reddito disponibile delle famiglie italiane è aumentato, al netto della stagionalità, dello 0,8% rispetto al trimestre precedente e dello 0,5% rispetto al corrispondente periodo del 2012. Lo ha annunciato stamane l’Istat aggiungendo che tuttavia, tenuto conto dell’inflazione, “il potere di acquisto delle famiglie consumatrici nel terzo trimestre del 2013 è aumentato dello 0,2% rispetto al trimestre precedente ma è diminuito dello 0,8% rispetto al terzo trimestre del 2012”. Nei primi nove mesi del 2013, nei confronti dello stesso periodo del 2012, il potere d’acquisto è calato dell’1,5%. Il dato è preoccupante almeno per due motivi: primo, l’inflazione è a livelli molto modesti (+0,7% su base annua a dicembre secondo le stime provvisorie diffuse il 3 gennaio scorso) e questo significa che se dovesse mai risalire (cosa peraltro che ancora oggi il presidente della Bce, Mario Draghi, ha escluso parlando anzi di attese per prezzi e tassi su livelli modesti “per un prolungato periodo di tempo”) il reddito disponibile, tanto più in presenza di una disoccupazione che sta tendenzialmente ancora crescendo, potrebbe tornare a ridursi comprimendo ancor di più il potere d’acquisto. O, per dirla in altri termini, la ripresa rischia di essere tale solo a fini statistici senza alcun concreto miglioramento delle condizioni di vita di milioni di italiani.

Il secondo motivo per cui il dato è preoccupante è legato al comportamento che continuano a tenere famiglie e imprese: le prime al calo del potere d’acquisto hanno risposto incrementando la propensione al risparmio, salita al 9,8%, in crescita di 0,5 punti percentuali rispetto al trimestre precedente e dell’1,1% rispetto allo stesso periodo del 2012, mentre i consumi hanno registrato una modesta crescita rispetto al trimestre precedente (+0,3%) ma un calo dello 0,7% rispetto al corrispondente periodo del 2012. In soldoni, le famiglie italiane risparmiano di più e consumano di meno perché temono per il proprio futuro (e probabilmente hanno ragione). In questa situazione anche il tasso di investimento delle famiglie stenta, tanto che nel trimestre è rimasto fermo al 6,3% come nei tre mesi precedenti, segnando un calo dello 0,3% rispetto al terzo trimestre del 2012: se foste promotori finanziari (o dipendenti di banca) fareste bene a iniziare a preoccuparvi se ancora non lo eravate.

Dal canto loro le società non finanziarie vedono la quota di profitto, pari al 38,8%, rimanere invariata rispetto al trimestre precedente ma calare di 0,4 punti percentuali rispetto al terzo trimestre del 2012. E cosa può fare un’azienda che si trova tra l’incudine di una crisi di domanda e il martello di un fisco (e di una burocrazia) soffocante come quello italiano? Naturalmente si concentra sul taglio dei costi e riduce gli investimenti, tanto che il tasso relativo è risultato pari al 19,5% (ossia si investono 19,5 euro ogni 100 guadagnati), segnando una diminuzione dello 0,1% rispetto al trimestre precedente e di 0,6 punti percentuali rispetto al terzo trimestre 2012. Come se ne esce da questo circolo vizioso? Una mano, già oggi, giunge dalla Bce di Mario Draghi, che in conferenza stampa dopo aver lasciato invariati i tassi sui prestiti alle banche (0,25%) e sui depositi per i soldi che le stesse lasciano presso le casse della Bce (zero) ha ribadito non solo che i tassi resteranno stabili a lungo anche se ci si attende una ripresa in sia pur lento rafforzamento nel 2014 e nel 2015, ma anche che la Bce è pronta a utilizzare qualsiasi strumento “in base alle necessità contingenti”.

Il che è un modo elegante per dire tutto e niente, lasciando tranquillo chi come la Germania e qualche altro paese del Nord Europa già sperimenta una discreta accelerazione dell’attività economica e teme che a lasciare i tassi bassi troppo a lungo prima o poi possa riaccendersi un minimo d’inflazione, ma anche tenendo sul chi va là il settore bancario che, ammette Draghi, probabilmente proseguirà nei prossimi mesi il “deleveraging” riducendo ancora i prestiti stante l’avvio dell’Asset quality review da parte della stessa Bce. Il problema con cui Draghi si confronterà anche nei prossimi mesi, peraltro, resta ancora lo stesso: come convincere le banche (ossia che strumenti utilizzare: ulteriori iniezioni di liquidità a lungo termine, tassi negativi sui depositi, acquisti di bond sul mercato, allentamento ulteriore dei requisiti per i titoli “collaterali” che le banche debbono portare alla Bce a garanzia delle somme ottenute) che debbono tornare a prestare e semmai aumentare il capitale dove possibile, anziché tentare di aggiustare i parametri patrimoniali riducendo ulteriormente il credito.

Se non riuscirà nella sua opera di “moral suasion” Draghi dovrà trovare un nuovo “bazooka”, ne più ne meno di quanto fatto nel maggio di due anni or sono, quando col varo dell’Omt convinse il mercato di essere pronto a intervenire in caso di ulteriore deprezzamento dei titoli di stato spagnoli e italiani. Da allora la cosa ha funzionato così bene che il rendimento sui titoli di stato spagnoli e italiani è calato rispettivamente al 3,79% e al 3,89% (contro l’1,91% pagato dai decennali tedeschi, con uno spread che dunque è calato sotto il 2% per entrambi i paesi), mentre l’Irlanda, ma anche la Polonia, la Slovacchia e a breve il Portogallo e persino Israele sono tornati o torneranno a emettere titoli di stato a lungo termine in euro. Eppure, per assurdo, proprio il successo di Draghi in questa prima missione mostra i limiti di una simile impostazione: i titoli di stato hanno recuperato terreno, l’onere dei debiti pubblici è stato contenuto, le valutazioni delle banche (e le quotazioni borsistiche dei loro titoli) sono migliorate ed è un bene certamente, specie per un paese indebitato come l’Italia le cui banche sono piene di titoli di stato. Ma all’economia reale non è arrivato quasi nulla, la disoccupazione ha continuato a salire, il reddito a ridursi.

Occorre un’azione politica che accompagni efficacemente l’azione dei banchieri centrali europei, un’azione che sia in grado di ridare prospettive a famiglie e imprese, di garantire il lavoro a chi ce l’ha e consentire a chi non ce l’ha di trovarlo, di tutelare il rispetto dei più basilari diritti umani che la crisi economica e la “repressione” fiscale hanno finito col mettere in forse. Occorre, per dirla tutta, la capacità di tornare competitivi e riavviare il motore delle economie europee più stanche, a partire da quella italiana (ma non solo). Una capacità che non può e non deve, a mio giudizio, basarsi più sul ricorso a vecchie e stanche formule come le “svalutazioni competitive” dei “bei tempi” della lira, che a nulla sono servite strutturalmente e semmai hanno posto i semi della crisi attuale che la “mala gestione” dell’euro ha fatto esplodere. Occorre il varo di una grande riforma culturale e pertanto politica ed economica. Ma francamente sono quasi stanco di scrivervelo (e immagino voi di leggerlo), in assenza di concreti segnali che mi inducano a pensare che la classe politica (ed economica e finanziaria) in Italia ed in Europa sia realmente in grado e intenzionata ad agire, finalmente per quanto tardivamente.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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